UNA VITA IN CUI TI RICONOSCI

di Federico Traversa

Lavoro perché lavorare mi rende libero, indipendente, e in pace con la mia coscienza. Non lavoro per arricchirmi, tenere ritmi da infarto e passare la vita a rincorrere numeri e algoritmi che qualche economista ossessivo compulsivo ha partorito per sopravvivere alla propria ansia aggiungendo altra ansia. Lo ripeto: lavoro per essere libero. Libero di trascorrere del tempo con le persone che ho scelto, e anche con quelle che non ho scelto. Libero di vedere il sole caldo duettare con la magia del mare, che quando i raggi si stendono sul filo dell’acqua e lasciano guizzare la luce fra le increspature delle onde, c’è da perdere il respiro. Lavoro anche per i bisogni, certo, ma cerco di tenerli a un regime minimo: un tetto dignitoso sopra la testa, le provviste necessarie e la possibilità di spostarmi. Delle eccessive comodità m’importa poco. Dei vestiti ancora meno. In quanto agli oggetti di valore, ne conto tre. Un piccolo Buddha di terracotta con la testa incollata perché i miei figli l’hanno decapitato – prezzo di listino 9,90 – e una campana tibetana che mi regalò mia moglie qualche anno fa a natale. Di quest’ultima il prezzo non lo conosco, ma non credo costi più di una ventina d’euro. Il mio scooter vecchio di 10 anni l’ho demolito, che con due bimbi piccoli lo usavo tre volte all’anno. Ho preso una macchina di seconda mano, abbastanza grossa ma distrutta. Come tutti possiedo un telefono e un portatile con cui lavoro, il primo di seconda mano, il secondo nuovo. Dentro c’è tutto il mio mondo, che vuol dire musica e libri. Finito. Ciò non significa che non abbia aspirazioni a migliorare le mie condizioni di vita. La sola differenza fra il sottoscritto e quella parte d’umanità descritta da Studio Aperto è che le mie aspirazioni sono legate alla qualità della vita stessa e non all’accumulo di oggetti deperibili come un nuovo cellulare iper tecnologico, la visibilità sociale o un paio di tette modello “guarda come combatto la forza di gravità”. Sia chiaro, non giudico né mi permetto di criticare chi sublima la propria insoddisfazione nell’accumulo di oggetti, attenzioni o trasformazioni fisiche capaci di restituirgli quella sicurezza di cui hanno bisogno per abitare la vita.

Dico solo che non fa per me. Credo che siamo tutti al mondo per conoscere e conoscerci, e per farlo serve essere il più possibile leggeri e liberi, soprattutto di testa. Liberi, ad esempio, di disporre il più possibile del proprio tempo per osservare il mondo e le sue mutazioni, per camminare lentamente lungo strade che non si conoscono mai abbastanza, accordando il proprio respiro al rumore del vento.

Anche perché la vita è insicura, breve e pericolosa. Per quanto giovane e in salute tu sia, rilassati, perché un giorno morirai. Ogni minuto che passa ci avvicina tutti alla tomba. E questo che ci piaccia oppure no. Siamo un lampo brevissimo in un lungo spazio scuro. Brrr, che brutta immagine. Diamone una un po’ più simpatica. Siamo come quei pop-up che appaiono un secondo o due nel nostro computer, e quando ci accorgiamo della loro presenza se ne sono già andati. Alcuni sono belli, luminosi e li notiamo per la loro capacità di brillare. Di altri invece non ci accorgiamo per niente e svaniscono senza che nessuno se ne accorga. Eppure entrambi hanno una cosa in comune: la loro presenza nel monitor del nostro pc è brevissima. Esattamente come la vita di ogni uomo o donna su questa terra.

Possiamo preoccuparci, spaventarci, intristirci per questa ineluttabile condizione ma questo non cambierà le cose. Il tempo passerà e prima o poi moriremo. La cosa strana è che la maggior parte di noi vive, agisce e si preoccupa come dovesse vivere per sempre. Se accettassimo la nostra mortalità, probabilmente della nostra vita ne faremmo un uso migliore. Certamente ci incazzeremo meno. Potremmo arrivare persino a ridere della nostra condizione ‘mortale’ e della comicità dell’universo, prendendo in giro tutti quei matti che si picchiano per possedere questo o quello, dimenticando che siamo arrivati in questo mondo senza niente e senza niente da questo mondo ce ne andremo. E svuotando il più possibile la mente dalla pesantezza dei nostri pensieri, un giorno potremmo addirittura arrivare e giocare con la vita, conoscendo più cose possibili del mondo quanto di noi stessi. Sia chiaro: anche in questo secondo caso il tempo passerà ugualmente. Invecchieremo, ci ammaleremo e moriremo, ma magari non oggi. E allora scopriremo che ci sono anche giorni colmi di gioia, profondità e bellezza, e che quando un giorno smetteremo di essere vivi in questa forma mortale torneremo a ricongiungerci con l’energia che soggiace a tutta l’esistenza, sperimentando forme diverse e più sottili di esistenza. Si viene e si va, come canta quel terribile cantautore emiliano che incomprensibilmente in tanti amate. E si ritorna, aggiungerei. Ma non perdiamoci con inutili elucubrazioni filosofiche. Quello che conta è che siamo qui adesso, chiamati a vivere una vita in cui ci riconosciamo completamente. Che poi è l’unica formula infallibile per non avvelenarsela. Senza paura, nessuna paura. Siamo chiamati a vivere tutte le dimensioni possibili che la vita ci serve giorno dopo giorno, belle o brutte che siano. Molte persone vanno dal proprio confidente spirituale – che sia un prete, un monaco, un mullah o un guru – e spesso chiedono: “Padre la prego mi benedica, faccia che non mi accada nulla”. Concettualmente le capisco, sono un cacasotto patentato, ma se ci ripensiamo un attimo, che diavolo di benedizione è? La vera benedizione è che possa accaderci di tutto. Siamo venuti qui per evitare la vita oppure per viverla?

Se siamo venuti per vivere, la benedizione è che le cose ci accadano. Se invece non vogliamo vivere la vita, che in estrema sintesi è un turbinio di avvenimenti continui, cerchiamoci pure un ponte per lanciarci giù perché stare al mondo senza vivere risulta più penoso che essere già morti.

In estrema sintesi, si vive per vivere e fare esperienza. È tutto molto semplice. Quando sei vivo, vivi. E quando sei morto, muori. Ora respiriamo tutti inseme, concentriamoci sui nostri piedi che fanno un passo dietro l’altro… e andiamo.

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