Archive for Novembre 2020

Quella volta in cui ho visto giocare Maradona

di Federico Traversa

Campionato 1989-90, ho 14 anni e i miei genitori hanno finalmente ceduto: dopo tre anni che imploro, e visto che sono un ottimo studente, mi regalano l’abbonamento di Gradinata Nord, il cuore pulsante della tifoseria rossoblù. Un posto mitico e mitizzato da cui si alzano quei cori magici per il Genoa, la mia squadra del cuore, che dopo anni infiniti nella cadetteria è finalmente tornata in serie A sotto la guida dell’uomo di Lipari, il capo popolo Franco Scoglio.

È il Genoa del Presidente Spinelli, del trio uruguaiano composto dal macchinoso Perdomo, dal fantasista Ruben Paz e dal guizzante Pato Aguilera, meraviglioso centravanti che la Nord adotterà come uno dei suoi figli prediletti, soprattutto quando, qualche mese dopo, finirà in manette per un crimine tutto da dimostrare.

Ricordo tutto di quel giorno, persino com’ero vestito: bomber blu d’ordinanza, jeans con le toppe, Doc Martens con la punta di ferro e sciarpa del Genoa, quella con la scritta Sestri Rossoblù che mi aveva venduto l’anima pia di Miglio del Genoa Club Sestri. E poi l’incontro col Galle e Christian in quartiere, due calci al pallone e via di corsa in stazione a prendere il treno per Brignole insieme agli altri tifosi, di tutte le età, dai bambini accompagnati dai papà ai ragazzi più grandi con lo sguardo da duri che animavano la gradinata.

Allora gli stadi non erano esattamente un posto sicuro, o perlomeno così si diceva alla televisione, e i genitori avevano paura a mandarci da soli. Personalmente, ho frequentato il Ferraris per oltre vent’anni e non sono mai stato coinvolto in alcun scontro né ho mai avuto da ridire con qualcuno. Poi non so, parlo solo per la mia esperienza ma, da quello che ho capito, tendenzialmente i guai capitano a quelle teste di cactus che se li vanno a cercare.

Comunque quella domenica i miei erano più tranquilli del solito perché il Genoa giocava contro il Napoli e le due tifoserie erano legate da uno storico gemellaggio.

Per noi, invece, l’epicentro dell’estasi era rappresentato da un altro fattore: il fattore M. Infatti avremmo visto giocare Diego. Diego Maradona. M-A-R-A-D-O-N-A.

Istinto, visione, ritmo e poesia. Vederlo giocare al calcio era un’esperienza mistica. Come sentir cantare Marley, veder boxare Ali, come i colli lunghi di Modì, il gancio cielo di Kareem, i versi di Rimbaud, come le curve strette di Ayrton, i lob di McEnroe, le visioni di Fellini, il mare d’inverno che suona la sua scura canzone…

Amavamo tutti Maradona, era un tipo istintivo, passionale, incredibilmente umano. Veniva da un contesto di estrema povertà e quindi naturalmente empatizzava con i più deboli. Per noi, figli della classe operaia della periferia di Genova, era un esempio, esattamente come le era per la sua gente dei quartieri poveri di Buenos Aires, o per quel brodo di umanità, sangue e sudore che ribolle nei quartieri spagnoli e nei vari rioni di Napoli.

Fu una gran partita, ragazzi. Il Genoa, il nostro Genoa tutto cuore e corsa targato Mister Scoglio, giocò benissimo contro la squadra del campionissimo argentino. Passammo addirittura in vantaggio con un gran gol del biondo Davide Fontolan, poi loro persero il baffuto terzino brasiliano Alemao, che venne espulso per un fallaccio mi pare proprio su Pato e poi… e poi Caricola, il nostro centrale difensivo scuola Juve, commise uno stupido fallo di mano in area. Forse pensava di giocare ancora con gli impuniti bianconeri, chissà…

Rigore per il Napoli. Sotto la nord. A tirarlo lui, el diez.

Lo osservai con attenzione, mi sembrava impossibile fosse a una ventina di metri da me. Osservai la sua chioma riccioluta, il collo imponente, le gambe massicce e un po’ storte, il modo che aveva di saltellarle sul posto, che quasi sembrava danzasse.

Possibilità che Gregori, il nostro non impeccabile portiere, parasse il tiro? Poche, per non dire pochissime. E infatti, pur intuendo la traiettoria, la palla finì all’angolino.

Uno a uno e tutti a casa.

Noi felici perché un punto contro il Napoli era tanta roba, e loro pure, perché la partita si stava mettendo male.

Per me, Galle, Chri e tutti gli altri ragazzini presenti, però, quel pomeriggio era stato grandioso per un altro motivo: avevamo visto giocare Diego dal vivo, non in video come capitato con i vari Cruyff, Eusebio o Pelè. Avevamo visto con i nostri occhi il più grande e un giorno l’avremmo raccontato ai nostri figli.

L’anno dopo Maradona non giocò a Marassi contro il Genoa, era fuori per infortunio, e da lì a poco lasciò Napoli e l’Italia, quindi quella partita fu un “one shot” indimenticabile.

Eppure Diego sarebbe rimasto nella mia vita, tornando di tanto in tanto ad accendere la mia fantasia.

Quando con Tonino Carotone incontrai Emir Kusturica, per dire, il sommo regista slavo stava iniziando le riprese del suo film sul Pibe de Oro, e finimmo a parlare di calcio, di Genoa, Osasuna, Napoli e, ovviamente, El Diez.

Stessa cosa un anno dopo con Manu Chao, che a Diego aveva dedicato una bellissima canzone e che ci raccontò quanto era stato emozionante incontrarlo.

E poi è arrivata Daria, mia moglie, napoletana 100%, con cui ho vissuto e vivo la città dei Borboni in ogni suo anfratto. Napoli, la sua magia, la storia, la fantasia folle della sua gente. Napoli, dove il 30% dei maschi nati negli anni ottanta si chiamano Diego, dove ho trovato una seconda famiglia che mi ama come un figlio, un fratello, uno di loro. Napoli, la squadra per cui tifa Alessandro, il mio primo figlio. Ovviamente insieme al Genoa.

Anzi, appena torna da scuola voglio farlo sedere sulle mie ginocchia e raccontargli, con la voce impostata delle grandi occasioni, di quella volta in cui il suo vecchio padre ha visto giocare Diego Armando Maradona. Più o meno è questo ciò che mi ero ripromesso di fare trent’anni fa mentre, pizzetta post partita in una mano e Coca Cola fresca nell’altra, rincasavo dallo stadio con Galle e Chri, e il futuro mi stava aspettando tiepido come quel sole a forma di dieci che stava tramontando.

CARO DON TI SCRIVO: LETTERA A DON GALLO

di Federico Traversa

Caro Don

stasera ho proprio bisogno di scriverti perché… perché qui è un gran casino…

Te ne sei andato sette anni fa, in un momento in cui il mondo era già un gran bel compendio di problemini e problemoni, ma oggi, credimi, siamo su altri livelli. Un tale cinema…

Ti racconto tutto perché credo, anzi ne sono sicuro, che dove sei adesso certe cose non ti tocchino più di tanto e tu possa fartele scivolare addosso come in vita non sei mai stato capace di fare. E meno male, perché è stato grazie a quella rabbia, a quegli “sciuppon de futta” (come li chiamavi tu) se ti sei speso per combattere le ingiustizie e aiutare tutti quelli che ne hanno avuto bisogno.

Ma oggi, oggi che ti sei ormai da tempo sciolto in una nuvola di pace, spero di non buttarti troppo giù se ti dico, per cominciare, che in Italia la Lega è il primo partito e Salvini – sì quello mezzo “abelinato” con la felpa che cantava “Vesuvio lavali col fuoco” – fa comizi in tutto il sud applaudito come un messia.

E non è finita, Don. Al governo c’è il partito di Beppe Grillo, che però non si fa vedere più tanto in giro, insieme al Pd, che ora è guidato dal fratello dell’attore che interpreta il commissario Montalbano. E lo so, sembra una fiction Rai e invece…

Ma aspetta Gallo, questo è niente: per 4 anni il Presidente degli Stati Uniti è stato Donald Trump! Sì, il miliardario con la testa arancione, che ora però ha perso le elezioni anche se dice che non è vero.

Tornando alla nostra Genova, devi sapere che due anni fa è crollato il Ponte Morandi, una tragedia enorme che ha distrutto tante famiglie e coinvolto anche la tua Comunità San Benedetto, che sotto il ponte aveva la sua Fabbrica del Riciclo.

Ma siamo solo all’antipasto, Don! Belin c’é la pandemia. Sì. Ho detto PANDEMIA!

Un virus mortale è arrivato a inizio anno dalla Cina e, ad oggi, ha fatto più di un milione di morti. Ci siamo tutti dovuti chiudere in casa da marzo a maggio e ora di nuovo. Ho una fifa, Andrea… sai, sono papà di due bimbi piccoli adesso e ho due genitori anziani non autosufficienti, sento tutta la responsabilità del momento addosso. Ovviamente di mio fratello sai tutto, spero solo che ora che è lassù ogni tanto tu possa dargli un occhiata, è un ragazzo buono e incasinato, di quelli che piacciono a te. Sono certo lo farai.

Comunque ti stavo dicendo del virus, Covid 19 si chiama. Un vero disastro, qui in Liguria poi i guai sono stati doppi. Sai, da quattro anni ci governa uno strano personaggio che si chiama Giovanni Toti, un signore veramente, ehm, diciamo particolare. Da quando è iniziata la pandemia lui dice che qui da noi è tutto sotto controllo, di stare tranquilli, ma in tanti sostengono che le sue sono “musse” belle e buone, perché i Pronto Soccorso sono al collasso, i medici e gli infermieri fanno più ore dell’orologio e la gente soffre le pene dell’inferno per farsi un semplice tampone. Qualche settimana fa questo Toti ha persino pubblicato un post sugli anziani che ha fatto il giro del mondo. Una belinata sul fatto che non sono indispensabili alla sforzo economico del paese messa giù con una tale mancanza di empatia che lo hanno preso per il culo anche in Groenlandia. Vabbé magari non fino a lì ma hai capito. Ci abbiamo provato col tuo amico Ferruccio Sansa a toglierlo da lì, si era candidato persino il nostro Flavio Gaggero, ma lo sai che a noi liguri piace soffrire. Così ha vinto le elezioni e ora legittimamente governa. E lo so… lo so….

Vabbé dai, passiamo oltre che non ti voglio intristire troppo.

C’è anche qualche bella notizia.

In questo marasma quel meraviglioso cavallo matto del Gino Strada ha accettato di andare a dare una mano alla sanità calabrese! Se non altro finalmente avremo qualcuno a cui veramente frega qualcosa delle persone.

E poi ci sono gli amici, ciascuno perso a “rincorrere i suoi guai” come cantava Vasco. Franco sta bene, qualche anno fa ha portato il nostro libro persino a Cuba, non oso immaginare cosa abbia combinato nella terra del rum. Megu finalmente è dimagrito, Andrea ti giuro sembra un figurino, ed è sempre a lottare insieme a tutti gli altri di Sambe. Pensa, la Lilli é addirittura su facebook mentre Viviana è diventata una sindacalista che si sbatte per tutti. Claudio Agostoni di Radio Popolare non manca mai di ricordarti nei suoi programmi e come lui Manu Chao e Tonino Carotone nelle loro canzoni.

Ecco, vorrei chiudere questa lettera con bei ricordi anche se… ehm… Ma come faccio a non dirti certe cose? Come posso tacere il fatto che Renzi, all’urlo di “Enrico vai sereno” ha fatto un nuovo partito? E l’ha chiamato Italia Viva. Te lo giuro, Andrea, è questo il nome che ha scelto. E già che a te non era mai piaciuto…

Ma c’è di peggio, amico mio. Lo sai in questo momento di confusione, paura e incertezza chi sta facendo da paciere tra le varie forze politiche? Chi ne sta uscendo meglio di tutti, con parole spese con misura e complimenti persino a Fabio Fazio? Sì, Andrea, lui, sempre lui e ancora lui. SILVIO. Ma lo sai che ha pure sconfitto il Covid? Dicono che ora punti al Quirinale. Sento dall’improvvisa folata di vento che mi ha fatto cadere il vaso grosso in terrazzo che questa l’hai accusata anche da lassù…

Che altro dirti, Don? Vorrei consolarti con le imprese del nostro amato Genoa ma anche qui, meglio soprassedere.

Che poi, chissenefrega.

Non ci si vede, non ci si tocca, non ci si abbraccia, tutti in giro con la mascherina, la vita pare cosi sterile e fredda che alla fine quasi ci dimentichiamo per cosa stiamo combattendo.

Andrea mi manchi!

Ci manchi!

Continuo a scrivere, i miei lettori crescono, mi chiedono consigli perché credono che siccome ti sono stato vicino forse posso aiutarli a fare un po’ di chiarezza nelle loro vite. Mi sono messo persino a studiare seriamente il buddhismo e a meditare per capire più cose possibili e parlare con un minimo di senso. Eppure più la mia consapevolezza cresce più mi sento piccolo. Più leggo e capisco maggiore è la forza con cui le tue parole mi risuonano in testa: “Nessuno si libera da solo, ci si libera tutti insieme” .

Ciao Don, ti voglio tanto tanto bene. Ora metto su un pezzo di De André o di Manu, mi bevo un bicchiere di vino e poi chiuderò gli occhi.

Ho bisogno di abbracciare forte il tuo ricordo.

ROBERT JOHNSON

LA MALEDIZIONE DEL BLUES

Una volta, quando ancora ero un aspirante scrittore di nemmeno vent’anni, andai a vedere la presentazione di un romanzo di cui si diceva un gran bene. L’autore era stato per anni un senzatetto alcolizzato, solo la voglia di scrivere ancora un’altra poesia e l’aiuto di un’amica che si era innamorata dei suoi scritti lo aveva salvato dal commettere suicidio. Pensate che scrisse la prima bozza del libro sul retro degli scontrini usati che raccoglieva da terra mentre mendicava. La prosa di quello scrittore sui cinquant’anni, che per almeno trenta aveva fatto a botte con la vita, era potente e suggestiva. E quando uno degli spettatori gli chiese a chi si ispirasse per scrivere, se più ad Hemingway o a Bukowski, lui solo rispose: “Al blues, io mi ispiro al blues. C’è solo un linguaggio per un cuore che sanguina e un’anima in cerca di redenzione e quel linguaggio è il blues. E il blues può essere suonato, cantato ma anche dipinto oppure scritto”.

E poi, a sorpresa, si mise a intonare una litania struggente, solo voce e nocche che battevano sul tavolo a cui era appoggiato.

Fu un momento straordinario perché quel giorno capii veramente e definitivamente perché il blues è il BLUES.

Nelle settimane successive ascoltai e mi documentai, scoprendo che i vecchi bluesman del Mississippi erano più sinistri e maledetti delle moderne rockstar che allora tanto amavo. Piantagioni di cotone, donne disinibite, alcol e maledizioni. Wow. C’era da uscirne pazzi. Poi qualcuno mi parlò di Robert Johnson e della sua storia, e per la prima volta ebbi davvero paura.

Avete presente il detto: “Attento a cosa desideri perché potresti ottenerlo?

Una vicenda che faceva tremare il mio cuore adolescente quasi quanto il film Angel Heart che, tra l’altro, alla storia di Johnson credo debba parecchio, perlomeno in termini di immaginario e sceneggiatura.

E comunque…

Presumibilmente Robert Johnson nasce l’8 maggio 1911 a Hazlehurst, nel Mississippi, undicesimo figlio di Julia Major Doods. I dieci figli che lo avevano preceduto erano nati dal matrimonio della donna con Charles Doods, tutti ma non Robert. Lui era figlio illegittimo, nato dalla relazione fra Julia e Noah Johnson, un lavoratore della vicina piantagione.

Un’infanzia nomade e povera la sua, ai limiti della miseria, e un’adolescenza segnata dagli immancabili scontri col patrigno e da nessuna istruzione scolastica. E poi la musica, i primi rudimenti per suonare inizialmente l’armonica a bocca, e dopo la chitarra insegnategli dal fratello Charles Leroy, a far nascere una passione che lo attanaglia per non abbandonarlo mai più. Eppure, nonostante tanto si impegni, non è che Robert appaia un musicista così dotato; laggiù, nel Delta del Mississippi, ce ne sono tanti migliori di lui.

A 18 anni il nostro già si sposa ma la moglie sedicenne, Virginia Travis, muore nel dare alla luce loro figlio. Distrutto dal dolore, Johnson inizia a vagare lungo il Mississippi bevendo, fumando, andando a donne ed esorcizzando il proprio dolore in struggenti blues alla chitarra.

Nel 1931 il musicista tenta di ricostruirsi una vita normale e sposa Calletta Craft, una donna da poco conosciuta con cui si trasferisce nel villaggio di Copiah County. Ma la crescente passione per la musica e un tormento interiore, che si spegne solo quando imbraccia la chitarra in un bar e sgolandosi del buon whisky intona un blues, lo riporta sulla strada, e il matrimonio ben presto naufraga.

Fra caldo torrido, ventilatori accesi, chitarre pizzicate, ugole corrose dall’alcol e donne prosperose, Robert continua a suonare.

Fra uomini tormentati, vecchi giradischi, binari dissestati, crocevia per mille diversi inferni e il melmoso Mississippi che scorre lento, anche il Diavolo lo ascolta.

Narra la leggenda che a Robert, chitarrista non propriamente eccelso, una notte capiti qualcosa di davvero strano. Voci dell’epoca parlano di un incontro fra il giovane bluesman e un uomo sinistro interamente vestito di nero. Un incontro avvenuto allo scoccare della mezzanotte a un crocevia desolato, dove l’uomo in nero avrebbe concesso al giovane un ineguagliabile talento chitarristico in cambio della sua anima. D’altronde Mr Belzebù ha sempre amato il tormento e l’estasi, quindi come potrebbe non amare il blues?

E in questa ormai mitica leggenda probabilmente qualcosa di vero c’è. Johnson, infatti, nel suo girovagare, effettivamente incontra un tipo davvero inquietante e misterioso. Si tratta di un bluesman di nome Ike Zinneman. È lui a insegnargli, forse, quella tecnica chitarristica incredibile che diventerà il suo marchio di fabbrica. Quella che molti anni dopo, quando Brian Jones farà ascoltare a un giovane Keith Richards un’incisione di Johnson, convincerà Keith che a suonare quell’incredibile musica siano due chitarristi e non uno solo.

E questo Ike misterioso lo è sul serio, ma così tanto che non ci sarebbe da stupirsi se fosse davvero un emissario di Belzebù in persona: nessun dato anagrafico, nessuna fotografia, nessuna notizia certa. Di lui si sa solo una cosa: adora suonare nei cimiteri la notte, tra lapidi gelide come la morte. E quando lo fa, spesso si porta dietro Robert.

Sia quel che sia, il goffo Robert Johnson diventa un chitarrista incredibile. La sua stupefacente tecnica chitarristica è ancora oggi considerata una delle massime espressioni del Delta blues, senza dimenticare i suoi testi oscuri, che spesso parlano di spettri, demoni e alcune volte si riferiscono direttamente al suo presunto patto col Diavolo. Una leggenda che Johnson ama e probabilmente alimenta lui stesso. Una leggenda a cui contribuiscono i racconti dei vari musicisti che hanno a che fare con lui, tutti concordi nell’affermare che Robert fosse un chitarrista abbastanza mediocre all’inizio. Poi morì sua moglie, lui sparì per un anno e al suo ritorno era un autentico fenomeno.

Altri aneddoti raccontano che il bluesman fosse capace di riprodurre nota per nota qualsiasi melodia ascoltasse, per radio come in un locale affollato, e senza porvi la benché minima attenzione.

E se la sua vita è stata una lunga notte misteriosa e spettrale, la morte, avvenuta a soli 27 anni, è anche peggio.

È la sera del 13 agosto del 1938 e Johnson, insieme ai musicisti Sonny Boy Williamson II e David Honeyboy Edwards, si sta esibendo al Three Forks, un locale a 15 miglia da Greenwood nel quale da qualche settimana i tre suonano ogni sabato sera.

Robert, al solito, non ha perso tempo, seducendo la moglie del proprietario del locale. All’uomo non importa, basta che il leggendario bluesman, perché ormai il suo nome è sulla bocca di tutto il Mississippi e anche oltre, suoni come si deve e tenga un profilo basso che non alimenti le chiacchiere. Ma quella sera, complici l’alcol e il caldo torrido, Johnson e la signora iniziano a lasciarsi andare ad atteggiamenti davvero troppo espliciti. Quasi imbarazzanti, come racconterà un testimone.

Il gestore del locale non può tollerare un affronto così spudorato e, forse, decide di vendicarsi, vendicarsi alla maniera del Sud.

Durante una pausa del concerto a Robert viene passata una bottiglia da mezza pinta di whisky già stappata. Sonny e David lo mettono in guardia: non è prudente bere da una bottiglia senza tappo. In quegli anni non è raro che i musicisti vengano drogati e derubati dei propri strumenti e dell’incasso della serata, meglio non correre rischi. Ma Robert, già ubriaco, manda tutti al diavolo e se la sgola in fretta e furia.

Poco dopo inizia a sentirsi male, la brezza alcolica lascia spazio allo stordimento e alla confusione tipica dell’avvelenamento. Trasportato all’ospedale, muore dopo tre giorni d’intensa agonia, senza che qualche medico trovi il tempo di fornirgli le cure necessarie, o perlomeno affievolirne i tormenti.

Ci lascia 29 storiche registrazioni, effettuate tra il 23 novembre 1936 e il 20 giugno 1937, 29 registrazioni che costituiranno una base imprescindibile per intere generazioni di musicisti a venire, da Muddy Waters a Bob Dylan, passando per Rolling Stones, Cream, Allman Brothers, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, e chiunque vi venga in mente fra le leggende del rock dalla sua nascita ad oggi.

E ci lascia pure quella symphaty for the devil, come dicevano gli Stones, che diventerà parte integrante dell’immaginario rock, fra musicisti compiaciuti, lotte dei benpensanti, miti, leggende, tragedie, commedie o semplici cliché.

Probabilmente il mondo del rock sarebbe stato ben altra cosa se quella notte, al crocevia per nessuna parte, un giovane nero poco dotato non avesse sacrificato la propria anima al demone della musica.

O almeno, è bello crederlo…

Tratto da Rock is Dead – Il libro Nero sui Misteri della Musica

(In libreria e in tutti gli store online)

Election Day: Chi è Joe Biden, l’anti-Trump sostenuto da Obama

di Federico Traversa

C’è un bellissimo video di una ventina di secondi che gira sui social in questi giorni: l’ex Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama sta uscendo da una palestra con il suo staff quando qualcuno gli passa un pallone da basket. Senza pensarci troppo Obama prende il pallone, fa due palleggi e realizza un meraviglioso canestro da tre punti, tra il giubilo dei presenti. A quel punto, senza fermarsi e continuando a camminare di buon basso verso l’uscita, si abbassa la mascherina e urla: “That’s what I do” prima di lasciar esplodere una bella risata. Fine. La fotografia di un istante efficace come mille comizi, d’altronde Obama è sempre stato un maestro nell’arte di comunicare. E questo è solo uno dei mille modi con cui l’unico cavallo di razza – di quelli davvero capaci di spostare qualche milione di voti – del Partito Democratico sta cercando di tirare la volata al candidato Joe Biden, che nonostante il discreto vantaggio nei sondaggi, non sembra aver acceso completamente l’immaginario del popolo americano. Sarà l’età, l’eccessiva prudenza o la dialettica non troppo briosa, fatto sta che Joe sembra più il male minore dettato dalle contingenze che l’uomo in grado di cambiare le cose. Probabilmente, visto il disastro combinato in questi quattro anni dalla scriteriata amministrazione Trump, questo dovrebbe bastare per cambiare inquilino alla Casa Bianca, eppure fra i democratici la paura serpeggia, in particolare dopo quanto successo nella scorsa tornata elettorale, con l’inaspettata sconfitta della Clinton.

Non si respira grande entusiasmo per il vecchio Biden, insomma, e in molti sostengono che, se come sembra alla fine ce la farà, sarà solo grazie alla disastrosa gestione della pandemia di Trump e soci.

Eppure, al netto di un’età effettivamente un po’ troppo importante – sua come del candidato repubblicano (Biden va per i 78 anni, Trump ha superato la boa dei 74 lo scorso giugno) – il curriculum di Joe parla decisamente a suo favore; senza dimenticare come le tante disgrazie subite da quest’uomo sfortunato lascerebbero supporre una sensibilità e un’empatia verso il prossimo tipiche di chi affronta e supera certe terribili tragedie.

Originario di Scranton, in Pennsylvania, dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università di Syracuse, Biden si è ben presto affermato come avvocato.

Ad appena trent’anni arriva il lutto che ne segnerà l’esistenza: la moglie e la figlia muoiono in un incidente stradale, con gli altri due figli della coppia che rimangono feriti. Joe li tirerà su da solo, risposandosi solo nel 1977 con Jill Tracy Jacobs, dalla quale avrà la figlia Ashley.

Politicamente la carriera del candidato democratico è stata lunga e costruita con certosina pazienza: eletto per la prima volta senatore per il Partito Democratico nel 1972, manterrà continuativamente l’incarico per ben 37 anni.

L’apice della sua carriera arriva durante l’amministrazione Obama, che nel 2009 lo nomina vicepresidente degli Stati Uniti, riconfermato anche dopo le elezioni del 2013.

Il 12 gennaio 2017, in uno degli ultimi atti della sua amministrazione, sempre Obama gli assegna la Medaglia Presidenziale della Libertà, la massima onorificenza del Paese, definendo Biden “un leone della storia americana e un esempio per le generazioni future“.

E fino a qui tutto bene, parafrasando il film “L’Odio”.

Ora veniamo alla voce scandali, che si sa, quando ti candidi a Presidente qualcosa viene fuori per forza.

Il nodo più spinoso per il buon vecchio Joe è rappresentato dallo scapestrato secondogenito Hunter. Tutto incomincia nel maggio 2019 quando il New York Times pubblica un articolo dove si accusa Joe di aver chiesto ai leader politici ucraini di rimuovere dall’incarico il procuratore generale Viktor Shokin, che in quel periodo sta indagando su presunte irregolarità compiute da Burisma Holdings, l’azienda ucraina di gas naturale nella quale opera Hunter, con un posto nel consiglio di amministrazione. Secondo il Times, Joe avrebbe minacciato di trattenere un miliardo di dollari di garanzie sui prestiti elargiti dagli Stati Uniti all’Ucraina. Stranamente poi, Shokin si dimette e storia finita.

Va detto che le accuse rivolte a Joe Biden non sono mai state confermate da prove certe e Hunter si è dimesso dal suo incarico presso la Burisma Holdings nell’aprile del 2019, e cioè prima che il padre si candidasse alle elezioni presidenziali.

Ma non è finita qui: nell’agosto del 2019, un agente della Cia presenta alla Camera dei deputati statunitense un documento in cui rivela i dettagli di una telefonata datata 25 luglio 2019 fatta da Trump al presidente ucraino Volodimir Zelenskij. In quell’occasione testa di arancia chiede più volte di aprire un’inchiesta per corruzione ai danni della Burisma Holdings, offrendo in cambio 391 milioni di dollari di aiuti militari all’Ucraina. La rivelazione costa a Trump l’avvio da parte della Camera della procedura di impeachment, con l’accusa di abuso di potere e ostruzione al Congresso. Assolto, l’uomo che ipotizzava di curare il Covid con iniezioni di disinfettante, continua da allora ad attaccare Biden per la “questione ucraina”.

Speculazioni a parte, il cinquantenne Hunter non è esattamente un esempio di figlio modello, con problemi di alcolismo, droga e relazioni extraconiugali. Per carità, niente di tanto diverso da almeno il 50% dell’occidentale medio, ma comunque non certo comportamenti di cui vantarsi. Ma non è lui il candidato presidente, è suo padre, sul cui comportamento, almeno fino ad ora, non si è trovato molto sui cui speculare.

Sono uscite voci di comportamenti inappropriati con quattro donne ma, al contrario della questione ucraina che tutt’ora rimane dibattuta, non è emersa alcuna testimonianza credibile né prove di alcun comportamento inadeguato da parte di Joe.

Lucy Flores, ex candidata democratica come vice governatrice del Nevada, ha accusato Biden di averla toccata in modo inappropriato durante un comizio elettorale nel 2014. Su The Cut la donna ha precisato che il comportamento di Joe non è stato violento né sessuale ma “vistosamente inappropriato e snervante“.

E cosa avrà mai fatto il vecchio Joe? Stando al racconto della donna, le avrebbe appoggiato le mani sulle spalle dandole un bacio dietro la testa. Una roba che qui da noi, abituati al Silvio style e ai bunga bunga fa quasi sghignazzare. Definirei queste esternazioni “il lato oscuro del #metoo” o, più criticamente, il modo con cui il potere sta cercando di ridicolizzare il legittimo e sacrosanto movimento femminista contro gli abusi sessuali.

E quindi?

Al netto dei colpi bassi, i violenti dibattiti televisivi e il legittimo sospetto che a certi livelli il più pulito abbia quantomeno la rogna, mi auguro che vinca Biden, e me lo auguro tanto per gli amici americani quanto per noi, che siamo direttamente collegati, volenti o nolenti, a quanto accade laggiù; l’attempato candidato democratico non sarà perfetto, forse è poco brillante, ma perlomeno rappresenta quei valori progressisti che guardano all’allargamento dell’assistenza sanitaria (se oggi molti americani sono vivi lo devono all’Obama Care, e questo nonostante sia assai migliorabile e ancora barbaro rispetto a molti paesi europei), alla tutela dell’ambiente, alla questione climatica, tutte priorità che dovrebbero essere alla base di un mondo più giusto, equo e libero. Certo, sarebbe stato meglio se al posto di Biden ci fosse stato Bernie Sanders, con la sua visione innovativa e rivoluzionaria, ma sarebbe stato davvero chiedere troppo. Un socialista alla Casa Bianca? Ma stiamo scherzando!!!

Quindi accontentiamoci di Biden e speriamo possa sconfiggere Trump, e che lo faccia nettamente nel nome dell’intelligenza. Non è più ammissibile vedere un simile idiota seduto sul trono della più grande super potenza del mondo. Un miliardario gretto, seppure astuto, che in 4 anni è stato capace di sdoganare definitivamente l’ignoranza, l’odio, la stupidità, le bugie eclatanti e il parlare a vanvera, trasformando tali deprecabili atteggiamenti in note di merito sociale.

Uno così ignorante da non conoscere l’antico motto dell’Ordine degli Assassini – Niente è vero tutto è permesso – ma comunque in grado di applicarlo a meraviglia.

Uno che ha fatto proseliti rafforzando e legittimando quell’ultra destra qualunquista, ignorante e becera, che qui da noi ha trovato collocazione e rappresentanti nei vari Salvini, gilet arancioni, negazionisti del Covid e tutto quell’assortimento di nuovi mostri che stanno imbruttendo il mondo, una cazzata alla volta. E ora iniziano a essere tante.

Per questo dobbiamo tutti sperare che quel canestro magistralmente messo a segno da Obama nel video virale di cui parlavo all’inizio, si realizzi anche il prossimo 3 novembre.

That’s what I Do.

Ecco, fallo anche stavolta, Barack!