Archive for Febbraio 2021

Sanpa: Luci e ombre di Vincenzo Muccioli

di Federico Traversa

Televisivamente, il maledetto 2020 si è chiuso col botto: Sanpa è una delle serie più avvincenti degli ultimi anni, uno spaccato documentaristico che non fa sconti e, partendo dall’obbiettivo di raccontare la controversa Comunità di San Patrignano, dell’altrettanto discusso fondatore Vincenzo Muccioli, finisce per tratteggiare meglio di tanti libri di storia quell’Italia del recente passato sulla quale, neanche troppo nascosta, è cresciuta quella di oggi.

Nel corso della narrazione vengono fuori le luci e le ombre di un microcosmo salvifico per alcuni e infernale per altri, in cui si intrecciavano vita, morte, dipendenze, interessi economici, violenze, antipatie, amori, e su cui governava lui: Vincenzo Muccioli. Un baffuto e corpulento re senza corona, amato e odiato, che salvava, condannava, puniva e assolveva. Un po’ santone e un po’ santino, risoluto, egocentrico all’eccesso, non sempre limpido nelle sue scelte seppur innegabilmente efficace, Muccioli per un periodo ha rappresentato al meglio quello che la cultura italiana ha ricercato sin dalla sua tormentata unione sotto il vessillo tricolore: l’uomo della provvidenza, quello forte, affascinante, quello che possiamo stare tranquilli che intanto ci pensa lui. Perché l’italiano è da sempre abitato da una terribile retorica: so come andrebbe fatto ma siccome non ne ho voglia trovo chi lo fa al posto mio, possibilmente meglio. Per questo qui da noi più che in altre democrazie, l’uomo della provvidenza ha sempre vinto facile. E mi fermo qui senza sciorinare quante volte è capitato, da Mussolini in poi, non ultimo con il nuovo premier Mario Draghi, su cui fioccano complimenti tout court ed è sparita ogni tipo di critica.

Il buon vecchio Vincenzo Muccioli, per quanto scaldasse il cuore degli amanti dell’uomo forte, era certamente più divisivo. C’era chi lo amava, all’inizio la maggior parte, ma anche chi lo detestava, criticava e se ne teneva alla larga, soprattutto dopo i processi “delle catene” e la brutta storia della spedizione punitiva finita in tragedia, con un orribile omicidio che di fatto puntellò l’ultimo chiodo sulla bara del fondatore di San Patrignano.

Ok, cappello introduttivo finito, ora mi fermo un attimo e scendo sul personale per spiegare un paio di cose, datemi solo una decina di righe. Da quando Sanpa è andata in onda, in tanti mi hanno chiesto se l’avessi vista, cosa ne pensassi, quale fosse la mia opinione su Vincenzo e sulla comunità. Il perché di tanta curiosità sull’umile opinione di un povero Dio come il sottoscritto è presto spiegata: ho collaborato per anni con Don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto, il cui metodo riabilitativo era l’esatto opposto di quello utilizzato nella struttura di Muccioli. Ecco, fermiamoci pure qui e perdonatemi se vi deludo ma voglio subito sgombrare il campo e annunciare, persino con un po’ di imbarazzo, che durante la nostra frequentazione non ho mai affrontato in maniera approfondita il discorso della riabilitazione e dei metodi terapeutici delle comunità di recupero con Don Gallo. Certo, abbiamo parlato, e tanto, di dipendenze, delle droghe e delle mafie che sulle droghe lucrano protette da uno stato eccessivamente proibizionista, ma di comunità e di metodologie di recupero molto poco. E non perché l’argomento non mi interessasse ma semplicemente perché Andrea ne aveva già parlato allo sfinimento nei suoi libri, a partire dall’imprescindibile “Il Cantico dei Drogati – L’inganno Droga nella Società delle dipendenze”, nei dibattiti pubblici e in migliaia di interviste, quindi nei tre libri che realizzammo insieme ci soffermammo maggiormente su altro.

In quel periodo conobbi comunque molti ragazzi di Sanbe, con alcuni di loro mi sento ancora oggi, e di certo respirai un’atmosfera di grande libertà e rispetto. Stando ai loro racconti, l’approccio che aveva la comunità del Gallo era del tutto differente. Andrea cercava di mantenere intatte le individualità, di farle uscire fuori in maniera libera e costruttiva, non di mutarle in qualcosa di precostituito. Senza considerare poi che, nell’esatto momento in cui l’ospite riteneva non facesse più per lui, era libero di andarsene. Una porta sempre aperta, quindi, sia in entrata che in uscita.

Una realtà ben diversa da San Patrignano, almeno stando a quello che ci ha mostrato la docuserie targata Netflix, con gente incatenata, porcilaie, umiliazioni, suicidi, presunti stupri e addirittura un omicidio. E infatti sulla memoria di Muccioli, una volta osannato padre salvatore delle innocenti vittime dell’ago, si è abbattuto un terremoto di pareri negativi, insulti e ira, una ribollita d’odio che i suoi pochi sponsor, a partire dal figlio Andrea e dal vecchio amico Red Ronnie, hanno cercato di combattere senza successo, anche perché, questo va detto, alcune situazioni sembrano davvero indifendibili.

Ma togliamoci per un attimo la maglietta dei tifosi di questa o quella squadra e proviamo a ragionare tutti insieme. Se vogliamo tentare un’analisi un minimo obbiettiva su San Patrignano e il suo fondatore dobbiamo considerare che, al netto delle legittime critiche che oggi vengono fatte a Muccioli e al sistema squadrista di Sanpa, manca un aspetto fondamentale: il contesto storico, almeno agli inizi. E non stiamo parlando di una variabile di poco conto, credetemi. Sono cresciuto con un tossicodipendente in casa e vi sto parlando dei primi anni ottanta; allora le famiglie non sapevano che cosa fare, tutti vittime dello smarrimento più totale. Lo stato se ne fregava, al Sert il metadone o l’antaxone lo davano solo a chi era pulito da almeno 10 giorni, altrimenti non ne avevi diritto, e le famiglie non sapevano come raffrontarsi col problema. Si era proprio soli. C’era chi consigliava il dialogo, chi suggeriva le mazzate. Spesso le si provava entrambe ma la realtà, o perlomeno quello che mi è parso di capire in tutti questi anni, è che finché il tossicodipendente non decide veramente e in totale autonomia di smettere, non smette. Il 90% della buona riuscita di una disintossicazione è lì, l’altro 10% è una questione di fortuna, fortuna di incontrare le persone giuste e i migliori contesti possibili quando dici basta, e probabilmente anche dopo.

Negli anni ottanta si era soli e spaventati perché i ragazzi morivano come mosche. Mio padre faceva il capostazione a Sestri Ponente, quartiere operaio stretto fra la Marconi e la Fincantieri, e ogni tre giorni i suoi colleghi trovavano un morto nei bagni con un ago piantato nel braccio. Si era terrorizzati. Si era disperati.

Poi saltò fuori uno come Muccioli – grazie anche all’aiuto dei Moratti che finanziarono la struttura fino a farla diventare gigantesca – che più o meno disse: “Li prendo io, anche i più malmessi, anche quelli senza speranza, li prendo gratis, e state tranquilli che se fan storie li chiudo dentro e non li faccio uscire” .

E allora tante mamme e tanti papà, ormai esausti, hanno mandato a Sanpa i propri figli, perché comunque il suo orribile metodo “mazzate” e “sole piatti” tanti ne salvava.

A quale prezzo chiedetelo a chi ne è venuto fuori. Ma anche qui non vi aspettate risposte a senso unico. Fabio Cantelli, che a breve uscirà con il suo libro sugli anni trascorsi a fianco di Muccioli e della serie è stato una voce importante, vi racconterà la sua visione, che è diversa a quella dell’autista Walter Delogu o del medico Boschini. Anche la conduttrice Andrea Delogu, che a Sanpa ci è addirittura nata, ne ha parlato nel suo intensissimo romanzo La Collina.

Tante voci, tanti diversi Muccioli che vengono fuori. Alcuni addirittura raggelanti. Esiste un sito – www.lamappaperduta.com – dove vecchi ospiti di San Patrignano si confrontano raccontando le loro esperienze. Leggerle è come ricevere un pugno nella bocca dello stomaco dopo aver appena finito di mangiare. Si parla di botte, catene, docce gelate, abusi sessuali, follia. Atti non compiuti direttamente da Muccioli ma di cui il fondatore di Sanpa era certamente al corrente. E poi ci sono i racconti dei presunti rapporti sessuali fra Vincenzo e alcuni dei suoi ragazzi. Claudio Ghira, ex-medico di S. Patrignano, durante la sua deposizione al processo per l’omicidio di Roberto Maranzano, alla domanda se i rapporti sessuali nella struttura fossero controllati da Muccioli, risponde: “Certo, ma nessuno controlla i suoi. Eppure quante volte lo abbiamo visto a letto con i ragazzi più giovani? Per molti di noi, però, almeno fino a quando non si riesce a passare dalla fase acritica, anche quello viene visto come un modo per stare vicino ad una persona che sta male

Parli di rapporti omosessuali forzati?

So di un ragazzo milanese che sicuramente ha visto i suoi problemi aumentare proprio per le eccessive attenzioni del babbo. Il capo amava soprattutto avere rapporti orali. Diceva che anche quelli servivano per far passare energia positiva da lui ai suoi discepoli”.

Sergio Bombardi, uno dei fedelissimi di Vincenzo, il 30 maggio del 2012 pubblica una drammatica testimonianza sulla sua pagina facebook: “Un giorno mi chiamò Vincenzo e mi affidò una ragazza di Rimini dalla quale le donne – mi pare la Diella (Rita) & C. non riuscivano a cavare nulla. Questa poveretta e poi si capirà perché poveretta fu affidata a me. Io però avevo l’impegno del gruppo per il quale era prassi il pernottamento insieme e non si poteva certo mettere a dormire una ragazza con qualche decina di ex o tossici. Mi disse (Vincenzo Muccioli, ndr) di andare con lei a vivere nella mansarda che fu alloggio di Vincenzo per un certo periodo. Non ricordo l’anno ma sicuramente prima del ’90. Durante il giorno sarebbe stata con noi chimici in laboratorio.

Lei non collaborava ed io iniziai a menare. La picchiavo con un bastone ovunque capitasse. Non la colpivo forte perché avrei potuto non solo farle male ma anche spaccarle un osso o chissà … la picchiavo con questo bastone e levavo subito il colpo.

Scusate il paragone ma si deve capire: la picchiavo come si suona la batteria: si dà il colpo e si leva immediatamente il bastone.

La colpivo anche in testa anzi furono parecchi i colpi in testa. Lei dura come il ferro neppure si lamentava.
Il giorno dopo alla sveglia trasalii. La testa e la faccia erano il doppio del normale. Chiamai il dottore ma non ricordo chi venne. Ricordo che mi guardò come si guarda un pazzo e mi disse di calmarmi. Non capitò nulla. Io credevo di aver esagerato come del resto era, aspettavo Muccioli che mi chiudesse in un tino e invece nulla. Restammo chiusi in mansarda per più di una settimana. Ricordo che il versamento dal cranio passò al collo e poi piano piano si riassorbì.

Non fini qui: la ragazza non collaborava ed allora si passò alle docce gelate. Io la mettevo nuda in doccia prendevo il getto in mano e perpetravo quest’altra violenza con la consapevolezza del mostro che sono stato parecchie volte.

A forza di vederla nuda un giorno mi feci masturbare… questo andò avanti per un mese o giù di lì.
Poi la ragazza che non aveva mai avuto problemi di droga ma era piuttosto un soggetto borderline cioè non abile come si intende, ma un po’ diversamente abile, collaborò.

Vincenzo a cena mi disse di alzarmi unitamente a questa ragazza della quale non ricordo il nome ma ricordo era di Rimini e doveva essere figlia di amici dei Muccioli, io pensai “ecco adesso mi fa nero”. Invece mi coprì di elogi e tutti mi fecero l’applauso più sincero!!!”.

Verità o vili diffamazioni?

Impossibile stabilirlo oggi.

Per cercare di saperne un po’ di più e raffrontarmi con una fonte diretta, ho chiesto lumi a un amico di lunga data che è stato tre anni a Sanpa. Lo chiameremo Y per tutelarne l’anonimato. Y aveva 23 anni ed era messo parecchio male quando, sul finire degli anni ottanta, finì a San Patrignano. Laggiù pianse, prese qualche ceffone, imparò a lavorare il legno e si ripulì. Fu dura, durissima. Oggi è un papà che ogni giorno si occupa del figlio adolescente, ha un lavoro stabile, e nel tempo libero gira in moto e ama fare lunghe passeggiate nei boschi. Se gli parli di Muccioli, a Y si illuminano gli occhi e prova per lui una grande riconoscenza. L’esperienza di San Patrignano gli ha salvato la vita.

Vedete? Le persone, esattamente come la vita, non sono mai tavolozze piene ma colori sfumati, mescolati, in perenne bilico fra la luce e l’ombra.

Allora i tossicodipendenti erano tanti, un’infinità, e le comunità avvedute troppo poche. E allora toccava turarsi il naso e andare da Muccioli, con i suoi metodi violenti, gli abusi, la maniacale disciplina e tutto quanto. Perché quegli anni sono stati una strage e le barbarie di Sanpa erano sempre meglio del vedere giovani nel fiore della vita spegnersi nei cessi delle stazioni.

Ecco, questo contesto, all’avvincente docuserie di Netflix, un poco manca; parlo dell’odore della disperazione negli occhi di tanti padri e madri che hanno perso i loro figli; parlo del rumore delle campane che rintoccavano cupe durante i funerali di ragazzi di nemmeno vent’anni; parlo dello sguardo vuoto di migliaia di anime giovani in corsa verso la morte. Un oceano di dolore che forse, e sottolineo forse, compensa gli imperdonabili errori di Vincenzo Muccioli e di San Patrignano.

O forse no. Una cara amica disintossicatasi tanti anni fa nella comunità di Don Gallo, e oggi valente scrittrice, mamma e donna impegnata nel sociale, mi fa notare che “il fatto che in quel periodo ci sia stato un Muccioli che, per le dimensioni che aveva la sua comunità, rappresentasse per tante famiglie o disperati in difficoltà l’unica spiaggia in cui sperare e a cui aggrapparsi lo comprendo ed è indiscutibile. Detto questo, se in tanti ce l’hanno fatta non significa che non ce l’avrebbero fatta senza quei metodi brutali”.

Anche questa è una chiave di lettura. Un’altra potrebbe essere da ricercare nell’eccessiva espansione di San Patrignano, che in pochi anni passò da ospitare un centinaio di ragazzi a oltre duemila persone e Muccioli fu costretto a delegare ad altri quello che non riusciva più a seguire direttamente. Gente non preparata che, inebriata dal potere, commise errori dagli effetti devastanti.

Sia quel che sia, oggi Muccioli non c’è più, ma i tossicodipendenti ci sono ancora. Temo ci saranno sempre, il passaggio alle droghe pesanti è diventato una sorta di stupida “prova di coraggio”, un rituale quasi necessario per una società che ormai da tempo ha perso ogni valore alto a cui il giovane, legittimamente, ambisce per spendere se stesso. E allora anche la droga, o meglio il passaggio attraverso il suo mondo, assume un valore rituale affascinante. Tutte le scelte più estreme dei ragazzi, dal fanatismo religioso in poi, sono figlie della necessità di cercare una maggiore profondità, quasi un disperato bisogno di quell’epica che la nostra società ha sacrificato nel nome degli agi, delle frasette motivazionali da baci perugina, del dio consumo.

La droga, almeno all’inizio, quell’apatica sicurezza priva di emozioni te la toglie. I legami, in quel mondo, si fanno più intensi, tanto nel bene quanto nel male. Ami di più i tuoi amici e odi di più i tuoi nemici. Ogni metro in strada un’avventura, una lotta per sopravvivere.

Un’ epica forte, un’epica che cattura.

Poi, quando in quel mondo ci sei davvero, le cose sono un pochino diverse: soffri come un cane, ti cola il naso, ti caghi nei pantaloni e fai cose di cui ti vergognerai tutta la vita, sempre che tu abbia la fortuna di fartela, una vita.

Ovviamente non è tutto qui. Il discorso è immenso, e abbraccia tutti gli infiniti raggi di quel complesso ingranaggio alla base dell’umana condizione. Alla droga si può arrivare perché si proviene da famiglie sbagliate, perché subentrano problemi pesanti, per una sensibilità o fragilità troppo spiccate, per una predisposizione genetica, addirittura per puro caso, ammesso che esista.

Non è un argomento facile, ci sono troppe sfumature, troppe luci e troppe ombre, proprio come dentro Sanpa e il suo strano, chiacchierato fondatore: Vincenzo Muccioli.

Forse certi problemi, così come certe figure, non vanno compresi a livello intellettuale ma scavalcano l’intelletto e pretendono un’attenzione, e poi un’accettazione, più profonda, pura, totale. Non concetti da impilare e razionalizzare, quindi, ma esperienze.

E le esperienze, belle o brutte che siano, le comprendi solo per “assorbimento”.

“Ci Manda Manu Chao” – Quella volta che con Tonino Carotone incontrammo Don Gallo

di Federico Traversa

Un notte di tantissimi anni fa, mentre io e Tonino ci stavamo bevendo Barcellona e tutti i suoi fantasmi, incontrammo Manu Chao e, a dire il vero, un sacco di altra gente. Eravamo tutti stipati in un baretto vagabondo del barrio gotico, il Mariachi. Santi e peccatori, artisti e spacciatori, risate e rimpianti galleggiavano insieme, protetti da quelle quattro mura che odoravano di vino, tabacco e venere. E dove si suonava una musica strepitosa. Erano gli ultimi anni di quella mescola di suoni e generi frettolosamente definita patchanka, con gente tipo Sergent Garcia, Amparanoia, Macaco, Gogol Bordello, Bandabardò (sempre nel cuore Erriquez, grazie del ballo, già manchi da morire) e tanti altri a incendiare la notte con suoni contaminati che odoravano di tutte le diversità del mondo. Un’ultima grande stagione creativa prima che la musica si accartocciasse su stessa, appiattendosi fino a far scomparire tutte le sue meravigliose sfumature per diventare qualcosa di piatto, da ascoltare distrattamente sulle casse marce di un cellulare grande come una tavoletta di cioccolato.

Ma torniamo a visualizzare quella notte. Eravamo al Mariachi, proprio nel cuore pulsante del barrio chino, e la prima cosa che mi chiese Manu appena venne a sapere che ero di Genova, fu se conoscessi Don Gallo. Certo, di fama lo conoscevo eccome, nella sua comunità erano transitate tante anime tormentate con cui avevo intrecciato pezzettini di destino, ma personalmente non l’avevo mai incontrato.

Il desaparecido, stretto nella sua camicia a quadri, i capelli scombinati che spuntavano da un berrettino verde militare, mi consigliò di rimediare al più presto perché, parole sue, “fare due chiacchiere con Andrea te pone los pelos de punta”. Questo disse, o qualcosa del genere.

A quel punto anche Tonino, che da sempre si definiva un “antivaticanista convinto”, manifestò la voglia di conoscere questo strano prete che al Padre Nostro accompagnava i canti partigiani e più che il rosario amava recitare gli articoli della costituzione; sempre in mezzo a quei figli di un cane che non avevano niente, sempre in giro in quei quartieri dove la luce del buon Dio non arrivava con i suoi raggi. E per quanto riguarda quella notte, è più o meno tutto.

Passarono i mesi. Con Tonino finimmo di scrivere Il Maestro dell’Ora Brava, il nostro delirantediario di peccati, viaggi e risate sparse come sale sulle ferite delle tante notti trascorse insieme fra l’Italia e la Spagna. Quel libro ottenne una buona quanto inaspettata visibilità nazionale. Uscirono articoli sui principali quotidiani, venimmo invitati da Fabio Volo a MTV, e la rivista Rolling Stones ci dedicò un bel paginone definendo il libro una sorta di “confessione laica”. Mediaticamente fu davvero un bel colpo, eppure allora il libro non vendette tantissimo e in breve tempo sparì dagli scaffali delle librerie; poi con il tempo si è rivalutato e oggi, un po’ a sorpresa, non solo è andato esaurito ma è diventato quasi una lettura di culto per la generazione SDC (sta per “scappati di casa”, lo specifico per chi non è pronto). Su ebay l’ho visto vendere a prezzi assurdi e un paio di ragazzi ai concerti ne portarono una versione fotocopiata per farsela firmare! Queste sì che son soddisfazioni!

Con Tonino nacque un’amicizia speciale e quando lo portai dalle mie parti, in mezzo ai miei disperati, lui – ragazzo di strada di Pamplona – si sentì talmente a suo agio che Genova diventò la sua seconda casa. Cominciò a fermarsi spesso da me e, un giorno in cui avevamo un po’ più tempo del solito, decidemmo di andare a conoscere Don Gallo.

Andrea aveva da poco pubblicato Angelicamente Anarchico, un libro che aveva ottenuto un successo pazzesco. La storia di questo prete di strada e dei suoi disgraziati stava toccando il cuore di migliaia di persone.

Così chiamai la Comunità, mi presentai e poi dissi che Tonino Carotone, grande amico di Manu Chao, era in città e desiderava incontrare Don Andrea Gallo. Risposero che gli amici di Manu erano anche amici loro e che saremmo potuti passare quando volevamo. Così, verso sera, partimmo alla volta della Comunità San Benedetto, dieci minuti d’auto da casa mia. Eravamo io, Tonino e Piluca, la sua compagna nonché cantante dall’ugola morbida come un petalo di rosa. Donna incredibile, di un’umanità di altri tempo, alta, altissima. In tutti i sensi. Scalza misura circa un metro e ottanta. Con i tacchi sfiora il metro e novanta. Con Tonino che arriva a malapena al metro e settanta… insieme sono buffissimi.

Appena entrammo nell’ufficio e il Gallo vide Piluca, tuonò con la sua voce arrochita dall’immancabile toscano che stringeva fra le labbra: “Ma cos’è questo ben di dio?”.

Scoppiammo tutti a ridere, il ghiaccio si era rotto nel tempo dell’attacco di una rumba.

Chiese a due ragazzi della Comunità di andare a prendere delle birre e brindò al nostro arrivo. Spuntò anche una bottiglia di grappa barricata, se non ricordo male.

Dire che quell’incontro è stato uno dei momenti più importanti della mia vita non è un’esagerazione.

Andrea cominciò a raccontarci aneddoti, storie mitiche, barzellette e segreti, alternando momenti di profondità ad altri di leggerezza assoluta. Non ci voleva un genio per capire quanta straordinaria umanità e gentilezza abitassero quel corpo minuto, stretto in un maglione blu scuro.

Il Gallo non era soltanto un prete di strada che si prodigava per dare ai ragazzi la possibilità di vivere un’esistenza migliore ma anche un uomo di una cultura, un’intelligenza, un’arguzia e un’apertura mentale che probabilmente non avrei raggiunto nemmeno vivendo altri cento anni.

Stordito da mille sensazioni, mi fermai a pensare a quanto mi avrebbe arricchito collaborare con una persona del genere, assorbendo come una spugna tutte le cose che aveva da raccontare.

Già con Tonino avevo cominciato a parlare di certe cose, impegnandomi nella testimonianza di storie legate all’impegno sociale, alla spiritualità e a una visione del mondo il più possibile libera dai dogmi.

Con Don Gallo avrei potuto proseguire questo nuovo percorso affrontando quelle tematiche che sentivo vicine. Tematiche raccontate dalla voce di chi aveva vissuto e conosceva un miliardo di cose più del sottoscritto. A quel punto, dandogli del tu come mi aveva ordinato, gli domandai se fosse sotto contratto con qualcuno, perché mi sarebbe piaciuto lavorare con lui. Rispose che collaborava con chi capitava, l’importante era far passare quello che aveva da dire e magari riuscire a portare due soldi alla Comunità, che era sempre in rosso.

Gli spiegai allora che anche io avevo un progetto editoriale, tanto entusiasmo e altrettanta voglia di scrivere. L’unica cosa che mi mancava erano i soldi ma ormai ci avevo fatto l’abitudine, ridotto i bisogni al minimo e imparato a vivere con poco. E mal che andasse avevo ancora due reni perfettamente funzionanti che certamente avevano un buon valore di mercato!

Rise come un pazzo. Poi si fece raccontare di nuovo la mia storia, chiamò il suo assistente e gli disse: “Ma ti rendi conto, Marco? Questo ragazzo faceva il commesso in un negozio di scarpe e si è licenziato perché ama la letteratura e vuole fare i libri. E non è figlio di un industriale o di un professore ma di un ferroviere! Ma come si fa a non dargli una mano?”.

Mi suggerì di richiamare in Comunità qualche giorno più tardi per fissare un appuntamento, così avremmo potuto iniziare a lavorare.

Uscii da lì che ero contento come poche volte in vita mia.

Poco cristianamente io e Tonino ci ubriacammo per festeggiare.

Tonino in realtà non aveva niente da festeggiare, si ubriacò per supporto.

E per questo ancora lo ringrazio.

Jim Morrison e il grande beat – ascoltando i Doors sotto la pioggia

di Federico Traversa

Tempi bui, difficili, scuri, quelli che stiamo vivendo. Tempi senza poesia, senza arte, senza musica. In più piove e, per lo meno qui in Liguria, il grigiume uggioso che ci circonda sembra non finire mai. Andiamo avanti così da settimane. E non è facile. In questo periodo sono sommerso dai problemi, credetemi. Volatili per diabetici duri come pietre. E, come detto, piove. Piove e manca poesia. Poesia e musica nell’aria.

E come si combatte quel misto di preoccupazione, malinconia, ansia e scazzo esistenziale che ti avvolge in certi momenti?

Davvero non lo so ma io, nel dubbio, ASCOLTO I DOORS.

L’ho sempre fatto e probabilmente sarà alla loro musica che mi rivolgerò finché campo. Sin da quella sera di ormai quasi quarant’anni fa quando, bimbetto di prima o forse seconda elementare, rimasi rapito da quel suono ipnotico e quella cadenza sinistra ma non triste che accompagnava l’ultima canzone del lato B di quella strana cassetta che mio padre aveva infilato nel mangianastri dell’autoradio mentre rientravamo dalla campagna, attraversando il passo del Turchino inghiottiti dalla nebbia. Gliela aveva passata mio fratello Fabrizio, sette anni più grande di me, che già abitava un mondo fatto di rock e ribellione alimentato da gente tipo Pink Floyd, Neil Young, Lou Reed, Deep Purple, Black Sabbath e, da qualche tempo, pure dal gruppo protagonista di quella cassetta matchata sony di colore bianco e rosso. The Doors, così aveva scritto a penna Fabri sulla banda adesiva. E ciao. Rimasi rapito da quel mondo, da quei suoni dilatati – a tratti morbidi, a tratti ossessivi – dalla sensazione di entrare in una dimensione coerente seppur narcotica in cui non ci si limitava all’ascolto di una successione di canzoni ma si andava a vivere un’esperienza “inusuale”.

E poi c’era la voce, quella strana voce, così diversa da quella degli altri cantanti che le mie giovani orecchie di bambino avevano ascoltato. Ovviamente allora non capivo nulla di musica, e ad essere onesti probabilmente neanche oggi che ne scrivo, ma avvertii in quel canto qualcosa che mi faceva venire in mente gli indiani d’America, un popolo che mi affascinava e per cui tifavo con cori da stadio durante ogni film western. No, nessuna coscienza politica, nessuna consapevolezza delle tante angherie che i nativi avevano dovuto subire dall’uomo bianco, semplicemente adoravo i capelli lunghi, e quelli degli indiani, cristo santo, erano fantastici.

Ma torniamo al viaggio in macchina, alla nebbia fitta, alla pioggerella che cade mentre qualcuno ci racconta che “the blue bus is calling us”. Credetemi, io lo sentii davvero quel richiamo, e lo sento ancora oggi, in particolare nei momenti di scazzo cosmico, in particolare quando piove.

Stacco temporale; ho sedici anni, faccio la seconda superiore, ho da poco scoperto le ragazze e mi trascino ogni mattina verso la scuola senza voglia, desiderando di essere da tutt’altra parte, a vivere una vita diversa, lontano dai problemi. A casa va di merda, in famiglia è arrivata l’eroina e ogni volta che squilla il telefono la paura ci mangia vivi. Fabrizio è sempre stato un tipo inquieto. Intelligente, sveglio, uno che leggeva Dostoevskij a 11 anni e si faceva un sacco di domande. Era prevedibile si incasinasse la vita. Continuo ad ascoltare quella cassetta dei Doors, in particolare quando piove, ed è bellissimo lasciare lo sguardo a briglia sciolta fuori dalla finestra mentre quel suono invade la stanza.

Allora non esiste internet e i giornali musicali raramente parlano di un gruppo il cui cantante pare sia morto in una vasca da bagno 20 anni prima. Le uniche cose che so di questi Doors, sono frammenti di storia che il mio meraviglioso fratello borderline mi racconta a spizzichi e bocconi, quando gli vengono in mente. Tipo che il cantante dalla voce così tribale e ipnotica si chiamava Jim Morrison e, cito le parole di Fabri come me le ricordo, “era un fuori di testa, viveva sui tetti, scriveva poesie e andava nel deserto a farsi di peyote, il catctus allucinogeno che prendevano gli sciamani indiani. Belin, deve essere una bella botta, peccato che qui da noi non si trovi…”.

Capite bene che per un ragazzino di sedici anni che cercava solo un modo per fuggire da una realtà incasinata, un racconto del genere fu quasi una rivelazione. Quando una sera mio fratello portò a casa un altra cassetta registrata – stavolta nera, rossa e bianca, e chi ce l’aveva i soldi per comprarle originali? – la mia epifania proseguì. Solita bianca banda adesiva, stavolta con scritto non soltanto The Doors ma L.A. Woman – The Doors.

Donna di Los Angeles, un concetto così distante da Sestri Ponente, la periferia di Genova in cui stavo crescendo, una realtà operaia fatta di cantieri navali, Italsider, tossici con gli aghi conficcati nel braccio che si accasciavano nei bagni della stazione e un mare che non si riusciva più a vedere, se non salendo in alto, fino alla Madonna di quel monte Gazzo che da lassù ci stava proteggendo poco e male.

Amici, mi credete se vi dico, che stava tuonando quando partì l’ultima canzone del disco?

Non riuscivo a capire se la pioggia che sentivo provenisse da fuori o da dentro le cuffie, per accompagnarmi attraverso la magia liquida di Riders on The Storm.

Quel disco mi ammaliò ancora più del primo, già mi immaginavo con lo zaino in spalla e le cuffie nelle orecchie, in giro per il mondo alla ricerca del grande beat.

Lo ascoltavo tutte le mattine, sul treno di noia che mi portava a scuola.

Considerate adesso che, fino ad allora, io Jim Morrison non l’avevo mai visto, nemmeno in foto.

Poi arrivò il film di Oliver Stone e cambiò tutto.

Fu Doorsmania. Fu Morrisonmania.

Poster, libri vecchi di anni che trovavano nuovo smercio e venivano ristampati, la copertina del The Best of the Doors che campeggiava ovunque, col ritratto a torso nudo del giovane leone Jim, con i capelli lunghi e arruffati, la collanina di perle e quello sguardo pericoloso.

Scazzo esistenziale a parte, a scuola andavo bene, così mia madre mi diede i soldi e quella raccolta – più tardi avrei capito che più che un best era una semplice selezione di singoli perché se nel meglio di un gruppo come i Doors tralasci pezzi come Soul Kitchen, Peace Frog, The Soft Parade, Roadhouse Blues, The Spy, sei un criminale – fu il primo disco originale comprato dal sottoscritto.

Poi, un sabato pomeriggio, andai a vedere il film.

… … … … …

Fermo restando che era una pellicola non del tutto veritiera, esagerata, non corretta nei confronti di Morrison e tutto quanto, avete idea cosa potesse provocare un film del genere in un ragazzino inquieto, poco avvezzo alle regole, con tanti casini in casa e una passione smodata per la poesia e il mondo degli indiani?

Fu una detonazione. Uscii da quel cinema – mi pare fosse l’Universale, che se la memoria non mi inganna stava in via Cesarea, più o meno dove ora c’è la Feltrinelli – che ero completamente stonato. Stonato di parole, suoni, suggestioni, idee, possibilità…

Combinazione, anche in quello strano pomeriggio del 1991, pioveva a dirotto ma me ne fregai bellamente e mi feci la strada fino alla fermata dell’autobus in P.zza Caricamento – amici non genovesi, credetemi se vi dico che da via Cesarea è un bel pezzo – sotto la pioggia, con L.A Woman in cuffia, i capelli fradici e il bomber blu d’ordinanza così zuppo che l’acqua iniziò a scendermi sul collo, visto che quel reperto bellico degli anni novanta di colletto non ne aveva proprio.

Qualche giorno più tardi scrissi la mia prima poesia, Era Lei, dedicata a una ragazza svizzera che avevo conosciuto d’estate all’isola d’Elba. Versi sciatti e banali ma almeno avevo iniziato. Un’altra ragazza dolcissima, dai capelli scuri tagliati tipo la Valentina di Crepax e gli occhi azzurri, mi regalò Nessuno Uscirà Vivo di Qui, la biografia di Jim.

Leggerla fu la fine di quello che ero e l’inizio di ciò che sarei diventato. Grazie al bellissimo, seppur discusso, libro della coppia Hopkins/Sugerman conobbi tutti quegli incredibili scrittori che avevano influenzato Jim: Baudelaire, Rimbaud e tutti i simbolisti francesi; Jack Kerouac, la beat generation; Carlos Castaneda, lo sciamanesimo; Aldous Huxley e le esperienze psichedeliche; William Blake; la meditazione trascendentale. E poi le onde dell’Atlantico, i motel da pochi spiccioli di L.A., la Parigi degli artisti, il deserto, i navajo, la stregoneria… da uscirne pazzi.

E infatti impazzii del tutto e, forse, non sono ancora rinsavito.

Oggi ho 45 anni, al solito piove a dirotto in questa fottuta città e la mia vita è cambiata almeno in 100 modi diversi da allora. Ho una moglie bellissima, due figli meravigliosi e qualche casino di troppo, ultimamente. Ho Imparato a meditare e a scendere a patti con le regole ma una certa inquietudine esistenziale è rimasta, credo che da quella non si guarisca. Dove sono io c’è sempre musica nell’aria, tanta musica nell’aria. Di mestiere faccio lo scrittore e ho un programma alla radio, si chiama Rock is Dead, come quella pazza jam che una sera del ‘69 i Doors registrarono ai Sunset Sound.

Perché faccia questo mestiere, perché continui a battere le dita sulla tastiera alla ricerca del grande beat, beh, ora lo sapete.

E quando piove, quando avete lo scazzo cosmico, davvero amici, datemi retta: ascoltate i Doors.