Archive for Dicembre 2020

Rockin’ in a free world – L’arte di NON lasciarsi condizionare, nella musica come nella vita

(di Federico Traversa)

Ci mandano a scuola e ci riempiono la testa di regole. Regole di comportamento, di etica, di approccio alla vita. Man mano che cresciamo sembra che la nostra vita sia scandita da tante piccole tappe in attesa del gran premio finale. Peccato che non ci sia nessun premio a fine corsa, anzi. Oggi il let motiv è più o meno questo: studia almeno fino alla laurea però divertiti. E non ti istruire troppo perché conoscere tante cose serve solo per ottenere un pezzo di carta che ti faccia trovare il lavoro che ti paga di più facendo meno. Fai esperienze ma non troppo approfondite sennò rischi di distrarti. Un po’ viaggia perché vedere il mondo è importante ma poi trovati un posto il più possibile fisso. Schiaccia tutto e tutti per conquistarti una posizione di prestigio, intanto in giro c’è pieno di stronzi. Quando sei sistemato accasati e fai dei figli ma senza fretta, la posizione deve venire prima; e poco importa se i tuoi bambini avranno genitori che sembreranno giovani nonni. Continua a lavorare come un pazzo e a schiacciare tutto e tutti perché il fatto di avere una famiglia giustifica ancora di più il tuo essere una merda. Gioca a calcetto oppure vai in palestra sennò ti stressi troppo e il fisico a una certa età ha bisogno di muoversi. Siccome sport e hobby non bastano, bevi, scassati di cibo spazzatura, prendi psicofarmaci così il sintomo sparisce, però ricorda di non indagare sul motivo di quell’ansia, altrimenti rischieresti di dover pensare in autonomia e affrontare verità capaci di mettere in discussione ogni scelta che hai fatto e la società in cui vivi. Ogni volta che con la famiglia o con gli amici ti capita qualcosa di vagamente carino o interessante fotografala e mettila in rete, in modo da non sentirti diverso da tutti i tuoi contatti che sembrano non avere una preoccupazione al mondo, vivere una vita meravigliosa e vedere un sacco di cose interessanti. E poi trovati un hobby strano, tipo sputo del nocciolo di pesca, anche quello da condividere sui social. Diventa un mago di nuove tecnologie per non sentirti vecchio. Guarda con superiorità i derelitti del mondo ripetendoti ossessivamente che tu sei diverso, hai una marcia in più e a te non capiterà. Nelle giornate in cui ti senti più figo del solito scrivi alle vecchie compagne di scuola rintracciate su facebook, oggi madri separate di mezz’età, cercando di sedurle e sentirti così quel gran sciupafemmine che eri in passato. Evita quanti più tumori e infarti possibile. Non pensare mai alla pensione perché intanto non ti spetta e poi la società ha fatto in modo di farti credere che in pensione vanno solo i super vecchi e tu non lo sei né ambisci a diventarlo.

Ah, e ricorda di non farti troppe domande sulla vita e il suo senso: potresti realizzare di essere stato per settant’anni su un rullo costruito da altri, senza possibilità di muoverti, e di essere arrivato a fine corsa. E lo so, lo so… è agghiacciante.

Per questo credo dovrebbe essere insindacabile diritto di tutti scegliere in libertà il proprio percorso, seguendo sogni, ambizioni e turbamenti personali. Andandosi magari a cercare sentieri poco battuti per conquistare nuovi modi di attraversare questo strano gioco chiamato vita. Peccato che il sistema di paure e condizionamenti conosciuto col nome di società (e anche religione) non lo permetta e isoli, sputtani e tiranneggi chiunque tenti vie di diverse. Oppure faccia di peggio, inglobando e appiattendo le voci dissonanti fino a renderle parte dello status quo.

Il rock, nel suo piccolo, è stato un esempio di questo modus operandi. Nato da un giovanile desiderio di cambiamento e voglioso di rompere le catene della buona borghesia è presto divampato diventando qualcosa di grande, capace di spingere i ragazzi a mettere in dubbio l’ordine costituito e a tentare scelte diverse. Pensate alla forza delle canzoni di protesta del primo Bob Dylan, della bella Joan Baez e di tanti altri musicisti impegnati. Oppure ai mega concerti, da Woodstock all’Isola di Wight, che portarono folle oceaniche di ragazzi a ballare mezzi nudi sotto le stelle all’urlo di peace and love. Giusto o sbagliato che fosse, il rock degli inizi ambiva a un cambiamento, un nuovo modo di vedere le cose.

Il sistema l’ha capito quasi subito, ha realizzato che non poteva reprimerlo e concluso che fosse molto meglio comprarselo e controllarlo. E l’ha fatto. Ha anabolizzato il rock con drogaggi vari e denaro sonante, si è comprato gli artisti e incanalato il movimento verso il puro business e il semplice intrattenimento. E ciao ciao rivoluzione.

Ma non voglio concentrarmi su questo, sarebbe inutile, quanto sull’orgoglio di fare scelte diverse, controcorrente e nuove. Sui pionieri e le eccezioni, quelli che con coraggio hanno aperto nuovi sentieri per attraversare la montagna. E il nostro mondo di esempi così ne è pieno.

Dove sarebbe il nostro amato rock n’roll se un ragazzo nero un po’ incazzoso di nome Chuck Barry non avesse deciso di mescolare il blues del Mississippi con una specie di country velocizzato? Per poi portare sul palco questo nuovo suono con performance adrenaliniche per l’epoca, fra assoli di chitarra elettrici e duck walk indiavolate?

Quante possibilità di affermarsi aveva un certo Elvis Presley quando decise di suonare la propria musica ancheggiando come un nero in un mondo dominato dai bianchi? E invece prima fece scalpore, poi si urlò allo scandalo e infine arrivò il successo. E niente nella musica fu più come prima.

Quale percentuale di successo avreste dato a un gruppo giamaicano che suonava musica in levare – e inneggiava a un re africano ritenendolo Gesù Cristo nella sua seconda venuta – di sfondare fra il pubblico rock dei bianchi della seconda metà degli anni settanta? Eppure Chris Blackwell, capoccia della Island, decise che quel Bob Marley con i suoi Wailers meritasse una possibilità. E a chi gli diceva che la musica caraibica era un suono da compilation e che nessuno avrebbe preso sul serio i Wailers, lui scrollava le spalle e rispondeva: “Li promuoveremo in modo nuovo, percorrendo strade che nessuno ha mai percorso”. Ed ebbe dannatamente ragione lui.

Negli anni novanta i rapper bianchi, dopo il flop di Vanilla Ice, non venivano presi sul serio da nessuno e se provavi a fare hip hop il minimo che potevi aspettarti era una bottigliata in testa. Quante possibilità aveva di farcela, essere accettato veramente dalla scena e ottenere un contratto discografico un ragazzino smunto dagli occhi azzurri, già padre di una bimba e che viveva in una scalcinata roulotte nei sobborghi di Detroit? Nessuna, vero? E invece Marshall Matters in arte Eminem ha fatto di più, non solo ottenendo un contratto milionario e il rispetto della scena ma diventando pure uno dei rapper più famosi e venduti di tutti i tempi, con uno stile suo e un modo di promuoversi completamente nuovo, lontano anni luce dai sentieri battuti in precedenza.

E avreste scommesso un penny che una ragazza ebrea dell’east side di Londra, piena di tatuaggi, con i capelli pettinati da black diva anni sessanta e un attrazione irresistibile verso gli eccessi, sarebbe diventata la nuova regina del soul-jazz? Eppure Amy Winehouse nella sua breve vita lo fece, percorrendo la propria scalata al successo in modo totalmente personale.

Potrei citare centinaia di esempi per spiegare un solo e semplice concetto: non dobbiamo prendere per buono quello che fanno gli altri ma cercare prima di capire se va bene per noi, e se non lo sentiamo aderire alla nostra pelle non dobbiamo avere paura di osare e tentare qualcosa di diverso, che pochi o nessuno ha sperimentato prima. E questo vale in tutti i campi. È così che il genere umano compie i suoi balzi evolutivi, grazie a i pionieri, a quelli che le cose provano a farle a modo loro.

Pensiamo diversamente, non anchilosiamo la nostra mente. Recenti studi neurologici affermano che la fisiologia del cervello cambia, migliora e si rinnova quando ci mettiamo a fare o a pensare di fare cose completamente nuove. Nascono nuove sinapsi, collegamenti e la nostra creatività si impenna.

Guai ad accettare quello che ci viene raccontato senza prima capirlo.

L’unica cosa che dobbiamo alla vita è viverla nel modo più aderente possibile a quello che siamo. E per tutto il resto… pump up the volume!

L’incredibile storia di Falco, il Mozart del pop che visse a 1000 all’ora

di Federico Traversa

La sua Der Kommissar è stata forse la prima canzone che ho canticchiato con talmente tanta insistenza da beccarmi una nota in classe. Il problema è che non riuscivo a smettere, quel “po po po” mi frullava a random nella testa e il tipo con gli occhiali scuri che cantava quel brano era troppo curioso e affascinante agli occhi del ragazzino di seconda elementare che ero.

Lui si chiamava Falco, ed effettivamente era parecchio diverso dagli altri. Intanto non era inglese o americano, come la maggior parte dei musicisti che affollavano le classifiche. Veniva dall’Austria, patria di grandi compositori classici ma non certo di popstar. Vestiva elegante, ispirandosi smaccatamente al Bowie della trilogia berlinese, con i capelli scuri impomatati, gli immancabili occhiali da sole e le barre in tedesco quando nessuno in Europa sapeva cosa fosse il rap.

Un tipo davvero singolare, che seppe catturarmi completamente, come sapevano fare i tipi più incredibili, quelli che quando passavano in tv non potevi fare a meno di guardare, come il Michael Jackson che ballava indemoniato in Thriller, i dreadlocks di Marley che ondeggiavano sul prato di San Siro o i Righeira e le loro giacché colorate che cantavano di andare alla spiaggia mentre scoppiava la bomba atomica.

Cristo se erano strani gli anni Ottanta.

Falco mi stregò già dal nome, figo come pochi. In realtà si chiamava Johann Hans Hölzel e si era ribattezzato Falco dopo essersi trasferito nella zona ovest di Berlino a vent’anni per cercare di sfondare con la musica. Nella città tedesca rimase stregato dalle gesta del celebre saltatore con gli sci Falko Weibflog, così sostituì la K con la C e decise che quello sarebbe stato il suo nome d’arte. Da quel giorno pretese di essere chiamato così da tutti, pure da sua madre, che si ostinava a chiamarlo ancora col nomignolo di Hansi, con suo grande disappunto.

Chiariamolo subito, questo ragazzone dai capelli scuri e lo sguardo penetrante non era un tipo semplice. Parliamo di un soggetto bizzarro, estroso e molto egocentrico, una vera “diva” che poteva fermarsi a teorizzare per ore sul modello di mocassini di coccodrillo visti indosso a un collega oppure parlare di sé in terza persona, ma parliamo anche di un musicista dotato, simpatico, generoso e divertente. Il Falco che ti trovavi davanti, probabilmente, dipendeva tanto da come si svegliava quanto da cosa aveva fatto la sera prima.

Musicalmente era molto preparato, nella casa in cui crebbe c’era un pianoforte e lui cominciò a suonarlo da piccolissimo. Per un periodo frequentò anche il conservatorio, anche se ben presto preferì il basso al piano, che imparò a suonare durante il servizio militare.

Nel 1977, a vent’anni, dopo qualche lavoretto saltuario, Hansi salutò la famiglia e si trasferì come detto a Berlino. Di lavorare manco a parlarne, lui accettava una sola possibilità nella vita: essere una star, come David Bowie, uno dei suoi più grandi idoli.

Nella città tedesca le sue notti erano lunghe e le giornate assai brevi.

All’epoca girava anche un’altra teoria sul perché avesse deciso di farsi chiamare Falco, sapete? E in questa storia si parlava di notti fumose, locali fatiscenti, drogaggi vari e un amico italiano distrutto dall’eroina che al termine dell’ennesima notte di devasto si girò verso il nostro, ancora in piedi e in discreta forma, e gli disse: “Tu te la caverai sempre, tu voli alto, sei come un falco“.

Rientrato a Vienna, Hansi – pardon, Falco – militò per un paio d’anni in uno strambo gruppo d’avanguardia, gli Hallucination Company, con cui ottenne un discreto seguito locale.

Secondo l’amico e compagno di band Wickerl Adam: “Falco era sesso, droga e rock n’roll in abiti Versace”.

Con un altra band, dall’attitudine più rock e politica, gli Drandiwaberl, in cui suonava il basso e all’occorrenza cantava, Falco incassò il suo primo successo come solista; compose infatti il brano Ganz Wien (Tutta Vienna), che era solito eseguire come riempitivo da solo ai live durante le pause del gruppo. La canzone parlava, con il consueto humour tipico di Falco, di come tutti nella capitale austriaca si facessero di coca e, manco a dirlo, venne boicottata dalle radio austriache. Eppure servì a fargli ottenere un contratto per tre dischi solisti con la Gig.

Ad affiancarlo, l’etichetta gli mise un produttore che aveva già macinato alcune hit. Si chiamava Robert Ponger e passò subito a Falco una strumentale strana, che occhieggiava alla dance ma anche a un suono più martellante, diverso, quasi black per non dire funk, una base sulla quale era difficile cantare. E infatti il cantautore austriaco Reinhold Bilgeri, per cui la base originariamente era stata pensata, la scartò schifato.

Falco all’inizio era dubbioso, per lui il singolo da registrare subito doveva essere Heiden von Heute, che gli era stata ispirata da Heroes dell’amato Bowie.

Tenne comunque la canzone con sé qualche giorno poi, prendendo spunto dal commissario Kottam, una celebre serie TV poliziesca austriaca in cui aveva recitato in un episodio, buttò giù il testo.

Se era impossibile cantare su quei ritmi lui decise, anticipando i tempi, di rapparci sopra, lasciando il cantato solo nel ritornello.

Der Kommissar venne terminata in pochi giorni diventando un successo clamoroso. In Austria, Francia, Germania, Italia, Spagna e via via in tutta Europa. Complice la spinta di Afrika Bambaata, che la suona nei club neri della Grande Mela, la canzone entrò in classifica persino in America, raggiungendo il settantaduesimo posto, una cosa inaudita per un brano cantato in tedesco. Era successo soltanto una volta, nel 1975 con Autobhan dei Kraftwerk.

Trascinato dal singolo delle meraviglie, anche l’album di debutto –Einzelhaftsvettò nelle chart, vendendo oltre sette milioni copie.

A quel punto Falco era ormai una star. Ma quel successo pretese dazio, un dazio pesante. Hansi, già egocentrico e incasinato di suo, si trovò spiazzato dall’improvvisa fama e la gestì nel peggiore dei modi possibili. Droghe, alcool, psicofarmaci, relazioni di una notte, follia.

Preda di deliri di onnipotenza, paranoia ma anche di un’integrità artistica che naturalmente lo portava ad alzare sempre l’asticella, realizzò il suo secondo attesissimo disco fregandosene di cercare un singolo potente come Der Kommissar. Inoltre scelse di continuare a cantare in tedesco nonostante tutti gli suggerissero di provare con l’inglese, in modo da sfondare anche in quel mercato, e lo fece assemblando una serie di brani dai testi complessi e ben poco accondiscendenti nei confronti delle radio. Se a questo aggiungiamo un atteggiamento distaccato e supponente durante le interviste, ecco servito il cocktail per il suicidio commerciale.

E difatti Junge Roemer, secondo disco d’inediti di Falco, si rivelò un flop clamoroso, che portò addirittura all’annullamento delle date del tour promozionale. Non solo per le scarse vendite ma per le pessime condizioni di Falco, perennemente fatto, ubriaco o entrambe le cose.

Distrutto dall’insuccesso, il musicista decise di staccare la spina, trascorrendo una lunga vacanza in Thailandia con gli amici più cari, nel tentativo di ritrovare un poco di equilibrio e pace interiore, a cui seguì un periodo lontano dalle scene.

Quando, dopo qualche anno, fu pronto a tornare, il manager Horst Bork gli presentò i fratelli Bolland, due produttori olandesi che avevano ottenuto un paio di clamorose hit e collaborato con Samanta Fox e Amy Stewart. Il mondo li avrebbe ricordati per In The Army Now che qualche anno dopo gli Status Quo portarono al successo.

L’incontrò partì male, perché la prima canzone che i due sottoposero a Falco fu un delirante pezzo sul suo più celebre concittadino: il compositore Wofang Amadeus Mozart.

Manco morto” rispose lui “è come se a voi chiedessero di realizzare una canzone sugli zoccoli e i mulini a vento perché siete olandesi” fu la piccata risposta di Falco.

Eppure l’idea che un moderno rivoluzionario del pop viennese raccontasse il geniale concittadino che rivoluzionò la musica classica non era niente male. In più il film biografico su Amadeus di Milos Forman, uscito solo un anno prima, con una regia moderna, quasi pop, aveva ottenuto un successo clamoroso, facendo incetta di premi e statuette.

E così alla fine Falco cedette e all’interno del disco con cui si stava giocando tutto – l’impareggiabile Falco 3, quello che contiene la scabrosa e bellissima Jeanny, Vienna Calling e Munich Girls, stramba rivisitazione di un pezzo dei Cars – accettò di inserire anche quello strano brano, che nel frattempo aveva mutato il suo titolo in Rock Me Amadeus, che la casa discografica scelse come primo singolo.

E ciao. Primo in classifica, ovunque, pure in America, con un remix del brano ironicamente chiamato Rock Me Amadeus – The Salieri Version, che superò Kiss di Prince. Ma ve lo ricordate il video? Con Falco vestito da Mozart e i motociclisti barbuti a creare quell’incredibile dicotomia con l’ambientazione settecentesca.

Falco 3 spopolò ovunque e Hansi finì addirittura ad aprire il festival nazionale di musica classica di Vienna davanti a oltre sessantamila persone. Impensabile per un cantante pop, ma non per Falco, che al momento era l’artista austriaco più venduto e apprezzato al mondo.

Un successo di gran lunga superiore a quello già fragoroso ottenuto ai tempi di Der Kommissar, di quelli in cui sali così tanto in alto che poi puoi solo scendere.

E infatti da lì in aventi la carriera di Falco non toccò più certe vette, nemmeno lontanamente, e anche la sua vita privata finì per incasinarsi sempre di più. Certe hit spesso segnano negativamente una carriera, proprio perché sono irripetibili.

I suoi successivi quattro dischi, registrati fra il 1986 e il 1992, vendettero bene solo nella sua Austria, dove ormai era una sorta di divinità, ma andarono male nelle altre parti del mondo e Falco ne soffrì tantissimo.

Tra un insuccesso, una pista di cocaina e una bottiglia di champagne, trovò conforto fra le braccia di Isabella Viktovic, biondissima ex miss Stiria che incontrò una sera in un bar di Graz, perdendo definitivamente la testa.

Era il mio tipo ideale: alta, bionda e con la tubercolosi” la descrisse Falco col suo immancabile sarcasmo.

Dalla Viktovic, che sposò nel 1988, ebbe l’amata figlia Katharina Bianca, da cui prese la forza per tentare di smetterla con alcool e droga. Ma durò poco. Ben presto la storia con Isabella naufragò malamente, i due si separarono e dopo qualche anno Falco scoprì, con grande tristezza, che la piccola, che ormai aveva sette anni, non era figlia sua.

Deluso, triste, indurito dalla vita, Falco lasciò l’Europa e si trasferì a Santo Domingo, cercando al caldo dei Caraibi un po’ di quella serenità perduta. Prima di andarsene, però, aprì un libretto di risparmi a nome della piccola Kathrina, da cui la ragazza avrebbe potuto attingere compiuti i diciotto anni.

Nonostante il paradiso in cui si era trasferito, Falco non la smise con la sua vita dissoluta, che si spense a San Felice de Puerto Plata, quando a un incrocio, mentre era alla guida della sua jeep Mitsubishi Pajero si scontrò contro un autobus, morendo sul colpo.

Nel suo sangue vennero trovate tracce di cocaina, alcol e marijuana.

Nel 1982, ai tempi del successo del commissario, aveva dichiarato a un giornalista di voler morire in un incidente d’auto, come James Dean. Una macabra quanto profetica dichiarazione.

Una morte su cui non mancarono le speculazioni, qualcuno arrivò persino a parlare di un possibile suicidio. Secondo alcuni testimoni, infatti, il suo fuoristrada venne travolto proprio mentre Hansi si stava immettendo a folle velocità in carreggiata senza guardare, quasi volesse farla finita.

Sia quel che sia, il 6 febbraio del 1998, ad appena quarantun anni, finisce la vita di Falco e inizia la sua leggenda. Riportato in Austria con un volo privato della Lauda Air – Nikki Lauda stesso era grande amico di Falco e aveva dato il suo nome a un aereo – l’autore di Rock Me Amadeus ebbe un funerale degno di un principe, con la bara trasportata dal gruppo di barbuti motociclisti che tredici anni prima erano apparsi nel celebre video.

Per non parlare della sua tomba, posta nel cimitero di Vienna, poco distante dagli illustri compositori del passato. Una tomba tutto fuorché sobria, con una statua di Falco che allarga le braccia sopra la lapide come fossero ali. Probabilmente lui l’avrebbe adorata. Anzi, la adora. Perché lui è ancora fra noi. Come recita mil titolo di uno struggente brano inedito rinvenuto dopo la sua scomparsa: Lo spirito non muore.

E ora apriamo le ali e voliamo.