Archive for Ottobre 2020

BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU: Il disco perfetto per uscire dalla pandemia

di Federico Traversa

C’é una ballata di Bruce Springsteen, profonda e appena sussurrata, che non riesco più ad ascoltare. Si chiama Paradise e già dall’arpeggio iniziale mi porta alle lacrime. La trovate in The Rising, disco datato 2002. La ascoltai la prima volta solo l’anno scorso, quando riaccompagnai a casa mio fratello dopo una delle sue prime sedute di radioterapia, quando ancora eravamo convinti che ce l’avrebbe fatta.

La canzone parla, in maniera accennata, quasi sfocata, dei sentimenti di un estremista prossimo a compiere un atto terroristico. Non so perché mi abbia colpito cosi tanto, forse l’ho legata alla storia di Fabri, perché, alla fine, un tumore, altro non è che un bastardissimo atto terroristico.

Fatto sta che da allora ho iniziato a cercare di approfondire il discorso Springsteen che, tolto qualcosa degli anni 80, non è che mi avesse mai appassionato più di tanto. Lo trovavo poco vario, eccessivamente easy listening, un padrino simpatico ma un po’ incolore di quel rock annacquato da autogrill. Poi c’erano i live, d’accordo, e lì il boss andava lasciato stare, un indiscutibile cavallo di razza, e dei più puri, ma a livello compositivo proprio non riusciva a entrarmi dentro. Per questo gli avevo sempre preferito gente meno pubblicizzata ma ai miei occhi più sanguigna tipo John Mellencamp o, che so, Tom Petty.

Complice Paradise, ho quindi riascoltato quasi tutta la discografia di Springsteen e, mi perdonino i suoi fan, ho solo trovato conferma di quello che già sostenevo: non molto innovativi ma certamente coinvolgenti i dischi degli anni Settanta e Ottanta, discreti ma eccessivamente patinati quelli dei Novanta e abbastanza fuori fuoco i lavori degli ultimi due decenni. Certo, ci sono tanti passaggi piuttosto ispirati anche nella discografia del Boss di questi ultimi anni, proprio Paradise ne è un esempio, ma mediamente c’è ben poco per cui spellarsi le mani.

Perlomeno fino all’ultimo Letter to You, uscito qualche giorno fa, il disco che cambia tutto. Un album di una bellezza, una potenza e una freschezza di suono davvero inaspettati per un signore che ha passato la boa delle settantuno primavere. Dodici canzoni commoventi e calde, come un fuoco che arde in mezzo alla neve, circondato da fantasmi che ballano in cerca della magia degli anni perduti, trovandola immutata in fondo alla strada.

Suonato in presa diretta dai survival della E Street Band e realizzato in soli cinque giorni, Springsteen l’ha definito “l’esperienza di registrazione più bella e intensa della mia vita”. E si sente.

Come ben riassume Gabriele Benzing su Onda Rock:Le chitarre spigolose e taglienti, la batteria solenne, il lirismo di pianoforte e organo, persino l’inconfondibile marchio di fabbrica del sax (con Jake Clemons a fare da controfigura del compianto zio): tutto è esattamente dove lo avevamo lasciato quarant’anni fa, forgiato da un instancabile affiatamento sulle scene. E funziona proprio per questo, perché è quello che Springsteen e la sua gang sanno fare meglio”.

O come mi ricordava stamattina il mio amico Robi Galle al telefono, springsteeniano della prima ora, finalmente non più deluso: “È tornato il Boss! Era da Tunnel of Love che l’aspettavo!”.

Il suono di Letter To You arriva compatto, muscolare eppure meno scontato del solito. Canzoni come Burnin Train e Janey Needs a Shooter (out-take che arriva addirittura dagli anni settanta insieme alle memorabili If I Was a Priest e Song for Orphans) ci consegnano un Bruce tirato, a tratti persino pesante; Last Man Standin e la title-track sembrano preghiere laiche alla musica e agli anni che passano, recitate da chi è ancora in piedi nonostante i tanti colpi che, volente o nolente, ti rifila anno dopo anno la vita.

La canzone d’apertura – Open You’re here – è invece una struggente ballata aperta da una arpeggio morbido che si sposa a un testo poetico e sommesso. Il let motiv del disco non è più il “nato per correre” degli esordi ma il resistere all’ossidazione del tempo, restando in piedi anche quando arriva l’inverno, un po’ come l’immagine che lo ritrae in copertina mentre, testa alta e schiena dritta, attraversa una New York ammantata di neve.

Un album di ricordi e legami indissolubili, come dimostra Ghosts, il secondo singolo, frizzante e tirato omaggio tanto alla vita sul palco quanto agli amici persi lungo il cammino. Amici che si rincontreranno, prima o poi, nella House of A Thousand guitars, pregheranno insieme (The Power of prayer) o magari verranno a trovarci in sogno come nella conclusiva I’ll See you in my dreams, che chiude l’album, con aperture ariose e accordi larghi, come se la E-Street Band stesse spalancando finalmente la soffitta di anni polverosi per fare entrare aria, sole e tanta luce.

E così si chiude Letter to You, forse uno dei lavori più sinceri e ispirati di Bruce Springsteen, un lavoro in cui, al netto del blasone e degli stilemi, a vincere sono onestà e sentimenti di un uomo complesso ma non complicato, che sta attraversando, come tutti noi, questo mare in tempesta che è la vita con rabbia, amore e tanta speranza.

Per questo, e molte altre ragioni, Letter to you é forse il disco perfetto per uscire da questa pandemia, da cantare tutti insieme abbracciati sotto il palco quando questo maledetto momento sarà finito.

Il Sottile piacere della malinconia

(ovvero: essere malinconici non è reato, playlist per quei momenti lì)

di Federico Traversa

La società attuale non contempla la tristezza, l’imperfezione e tantomeno la malinconia. Devi essere sempre felice, sorridente, sano, bello, ben conscio di dove stai andando e perché. L’ aspetto vincente tout court dell’esistere è ormai talmente importante da aver fatto nascere un florido business per aiutarti a raggiungere l’obbiettivo. Mental coach, motivatori, maestri di yoga, pagine social sul miglioramento personale, guru del pensiero positivo, eccetera, eccetera, eccetera.

L’importante è non apparire insicuri, tristi e malinconici. L’importante è nascondere le proprie debolezze davanti al mondo.

Ho sempre odiato questo modo di vedere la vita, e per svariate ragioni. Sono sempre stato un tipo insicuro, spaventato, spesso a pochi passi dal cadere di sotto, vittima se non proprio di una profonda tristezza certamente di un’avvolgente malinconia. Così avvolgente da diventare quasi una sorta di coperta calda a cui, dopo tanti anni, mi sono affezionato. Già perché la malinconia non è una cosa brutta. Anzi. Ogni tanto vivere come dentro un video triste che va avanti al rallentatore per ore e ore non è niente male. Soprattutto se hai la musica a farti compagnia.

Tutti noi, durante un momento difficile, ci siamo ritrovati avvolti nel nostro maglione sformato – quello che indossiamo in quelle giornate un po’ così – ad osservare la pioggia che cadeva dalla finestra mentre una playlist a tema invadeva la stanza con i suoi suoni perfetti per la situazione. Proprio come se ogni canzone ci scavasse dentro. Adoravo farlo a vent’anni e adoro farlo anche oggi. Certo, adesso che sono papà posso cullarmi molto meno nell’apatia esistenziale ma ogni tanto, se capita, mi concedo anche io di essere malinconico. Vedo il ‘momento nostalgia’ non come un nemico da abbattere ma uno stop necessario per rallentare un po’, ripassare le cose veramente importanti e poi ripartire. Anche perché con la tristezza c’è poco da fare, devi solo aspettare che passi. Come un temporale. Quando piove non andiamo ad agitare i pugni contro le nuvole urlando al cielo di smetterla di frignare, perché sappiamo non servirebbe a nulla.

Ci sediamo comodamente al riparo, osserviamo le nuvole e aspettiamo che spiova, cosa che regolarmente accadde.

Come insegnano i grandi saggi orientali – non quelli in tuta da ginnastica che fanno milioni di views su youtube e poi finiscono sui giornali per aver molestato qualche ragazzino, parlo dei saggi veri – arriva la tristezza, poi la gioia, ancora e ancora. Tutto viene e tutto va. È solo un mood mentale, che prima e poi passerà esattamente come prima o poi smette sempre di piovere. Tolta quella tristezza che proviene da effettivi traumi, che so una malattia, un lutto, o l’amore della nostra vita che ci lascia per sempre, il 90% della nostra infelicità nasce dentro di noi e dipende da quante nuvole ci portiamo dentro in quel momento. Infatti gli stessi accadimenti vengono vissuti in maniera diversa a seconda del nostro umore. Se ci tamponano in macchina una mattina in cui siamo incazzati, in ritardo e siamo stati appena multati dai vigili ci incazziamo come dei puma, ma se invece ne veniamo da casa di quella rocker tatuatissima che è la nostra vicina, la quale ci ha accolto in perizoma prima di sedurci sulle note di White and Bleed degli Slipknot, e in più abbiamo vinto un biglietto omaggio per il concerto dei Rolling Stones, probabilmente di quel colpetto sul parafango non ce ne fregherà niente. Congederemo il tamponatore del mattino con una pacca sulla spalla, semplicemente dicendogli: “Tranquillo, fratello, son cose che succedono, vai pure. E buona giornata”.

Capito l’antifona? La macchina umana è tanto semplice quanto complessa.

Tornando alla malinconia, quindi, il mio consiglio è di godersela tutta. Negli anni ho addirittura compilato con certosina pazienza una playlist per l’occasione. Fidatevi, la mia ‘malincolist’ non tradisce mai, nata per essere sparata in cuffia a random quanto si è giù. È molto varia e lunghissima. Ripeto si tratta di un lavoro di anni. Alcune canzoni le ho inserite per il mood, altre perché hanno significato qualcosa di particolare per il sottoscritto. Non necessariamente sono tristi, magari semplicemente meditative, profonde o solo capaci di cristallizzare la mia malinconia in qualcosa di bello.

Gli artisti, come anticipato, sono molto eterogenei.

C’è dentro She Lost Control dei Joy Division, Black dei Pearl Jam, Down in a Hole degli Alice in Chains, Talk Show Host dei Radiohead, Soul to Squeeze di Red Hot Chili Peppers, Blessed to Be a Witness di Ben Harper, Entre dos Acqua di Paco de Lucia, Mama Wolf di Devandra Banhart, Ghost Song dei Doors, Spirit Bird di Xavier Rudd, Everybody Here Wants you di Jeff Buckley, Hurt cantata da Jonnhy Cash. E ancora: My Vida di Manu Chao, Rooms della Jim Carroll Band, Merry go round dei Motley Crue, Love you like I Do degli Him, Out of Time Man di Mick Harvey, Come as You’re dei Nirvana, Patience di Nas e Damian Marley, Back to Black di Amy Winehouse.

Niente male, vero?

Ne ho anche una con solo pezzi in italiano. Si va da Vivere di Vasco a Ciao Amore Ciao di Tenco passando per La Ballata dell’amore Cieco (De Andrè), Anima Latina (Battisti), Com’è Profondo il Mare (Dalla), Senza Vento (Timoria), Quello che Non c’è (Afterhous), La Cura (Battiato), Viba (Verdena), Zeta Reticoli (Maganoidi), Amore Disperato (Nada), Non Escludo il Ritorno (Califano) Aspettando il Sole (Neffa), Messico e Nuvole (fatta dai Bluebeaters), Aida (Rino Gaetano), Signora Luna (Capossela), Mare Mare (Carboni) e ovviamente Mary dei Gemelli Diversi. No, dai quest’ultima non è vera.

Anzi fate, una cosa, mandatemi via mail anche la vostra playlist per godere dei sad moments, così cambio un po’. L’aspetto.

In conclusione, amici, non c’è niente di male a essere giù di morale, a sentirsi degli impiastri o a non apparire fighi come ci vorrebbero gli altri. Essere forti non significa non andare mai al tappeto ma avere la capacità di accettare i brutti momenti, affrontarli e rialzarsi. E poi ricordate, le sensazioni che ci attraversano, belle o brutte che siano, sono come nuvole che attraversano il cielo. È sicuro che arriveranno come è sicuro che se ne andranno. Ma noi siamo il cielo, che sotto quelle nuvole, resta sempre azzurro.

Quindi, citando il Grande Lebowski, prendiamola un po’ come viene e, mentre lo facciamo, possibilmente ascoltiamo qualche bella canzone.

Quella volta che Manu Chao attraversò la terra dei narcos suonando gratis per i poveri del far west del mondo

di Federico Traversa

In un mondo della musica dove sempre più spesso si è costretti a scendere a compromessi in nome del mantenimento del proprio seguito, ogni tanto sopravvive qualche artista davvero libero, con una mente aperta, degli ideali autentici, una coscienza limpida, e che delle regole non scritte dello showbiz se ne frega bellamente. E se quell’artista è vero, sincero e ispirato, alla fine è probabile che l’abbia vinta lui. Lo so, lo so, quelli così si contano sulle dita di una mano, eppure ci sono. Esistono e se desideri amarli, prima o poi la loro musica ti troverà.

Uno di questi è sicuramente Manu Chao, e lo è oltre ogni ragionevole dubbio. Parliamo di un tipo incredibile, incredibile sul serio. Nato in Francia da genitori spagnoli, nelle sue vene scorre sangue basco e galiziano. Con la Mano Negra, il gruppo con cui ha ottenuto un importante successo internazionale, mescolava influenze di ogni tipo, spaziando fra caleidoscopi di culture diverse.

Successivamente ha intrapreso una carriera solista, libera e splendente, che per un periodo lo ha fatto assurgere a paladino del movimento no global e delle istanze di tutti i popoli terzomondisti. Quando si è reso conto che qualcuno ne stava strumentalizzando intenti e visione, ha deciso semplicemente di sparire, non parlare più molto con la stampa, registrare sempre meno dischi e viaggiare per il mondo, alla ricerca di progetti che potessero di nuovo accendergli l’anima. Tipo La Colifata. Come dimenticare quel disco? Un album che Manu ha registrato con i pazienti di un centro di malattie mentali di Buenos Aires per finanziare la struttura e l’omonima radio gestita dai pazienti.

Mr Chao è uno che non mai fermo, perennemente in viaggio, gli occhi spalancati nel tentativo di capire cosa succede in giro.

A Barcellona è facile incontrarlo al bar Mariachi, un piccolo locale del Barrio Chino dove fanno un idromele buonissimo. O al Bahia, in quella che i barcellonesi chiamano “la Plaza dei Tripi” a bere Horuco in compagnia di una cricca multietnica di artisti, perditempo, geni e sregolati. Ci ho fatto qualche serata anche io col mio amico Tonino Carotone e se te le ricordi vuol dire che non c’eri.

Manu è un tipo difficile da spiegare, uno che non afferri facilmente, tant’è che ha volte viene frainteso.

Don Gallo lo adorava. Durante il G8 mentre Manu era a Genova per un concerto volle incontrare diverse realtà locali per cercare di far qualcosa di attivo durante la manifestazione. Il Don propose di dare vita a punti di ristoro in giro per la città che dessero da mangiare e da bere ai manifestanti. Suggerì di chiamarlo Bar Clandestino. A Manu brillarono gli occhi e disse al Gallo di procedere, che l’avrebbe aiutato. Andrea e la Comunità di San Benedetto al Porto si diedero da fare e nei tre giorni del G8 non so quante tonnellate di pane e litri d’acqua andarono via.

Due giorni dopo un tipo dalla faccia stralunata passò dalla Comunità, chiedendo di incontrare Don Gallo.

Mi manda Manu” disse, prima di mettere nelle mani del Don un assegno di quasi trenta milioni delle vecchie lire.

Un’altra volta Manu passò da Genova e venne alla “Lanterna”, il ristorante della Comunità San Benedetto, un posto rustico dove ti può capitare di mangiare gomito a gomito tanto con Vasco Rossi che con un tossico che ha appena intrapreso il suo lungo percorso di recupero. Solo che di domenica il locale è chiuso. Allora cosa fece, Manu? Lasciò a Don Gallo una rosa bellissima e un biglietto. Quella rosa gliel’avevano donata i detenuti del Carcere di Volterra per cui aveva fatto un concerto gratuito, senza clamore, senza allertare i media. In silenzio.

È sempre stata questa la sintesi della sua missione: dare voce a chi non ce l’ha.

Oppure mi viene in mente quando venne in Italia a presentare Clandestino e, mentre tutti lo aspettavano al Leonacavalo, se ne andò con la sua banda a suonare in Piazza Duomo davanti a venti extracomunitari.

Ce ne sarebbero mille di aneddoti su Manu, tanti me li ha raccontati Tonino Carotone, che con il clandestino ha un rapporto fraterno. Tanti altri Pacorro, un tipo incredibile di quasi sessant’anni che vive a Barcellona e ha fatto il road manager persino per Joe Strummer.

Ma quello che vi ho raccontato fino ad adesso, andando un po’ a braccio e ripescando da alcune delle notti più emozionanti della mia vita, sono poco più che dettagli, bazzecole.

È stato nel 1993, quando ancora militava nella Mano Negra ed era all’apice del successo con la vulcanica band meticcia da lui fondata, che realizzò qualcosa di incredibile, una storia senza precedenti nel mondo del rock. E lo dico senza timore di essere smentito.

Forse per espiare a uno strano senso di colpa per avercela fatta con la musica, certamente per rompere la monotonia dell’eterna abitudine studio-album-promozione-tour, sicuramente per un senso di genetica empatia verso la gente che possiede poco o nulla, fatto sta che Manu si gettò in un progetto apparentemente da manicomio.

In Colombia, allora, esistono solo 3200 km di binari ferroviari, e la metà risulta inutilizzata; Manu ha un rapporto profondo con il popolo sudamericano, e con quel paese in particolare. Così una bizzarra idea inizia a prendere forma: ridare vita all’antica linea coloniale che trasportava banane e caffè, e portare uno spettacolo itinerante di musica, numeri circensi e allegria in tanti piccoli paesi controllati dallo stato corrotto, dalla guerriglia o dal cartello dei narcos. Il tutto ovviamente gratis, con le spese a carico degli sponsor che accetteranno di sostenerli, e della Mano Negra.

Capito la follia? Considerate che stiamo parlando di un gruppo all’epoca fra i più famosi d’Europa, che con il precedente album, King Of Bongo, ha inanellato critiche entusiaste e vendite insospettabili.

Il piano inizia a prendere vita, Manu trascorre quasi un anno facendo spola fra Parigi e Bogotà per mettere a punto la spedizione. La ferrovia colombiana mette a disposizione della band un deposito per lavorare alla ristrutturazione di un treno dismesso, oltre a chi, fra il personale ferroviario, se la sente di offrire la propria mano d’opera.

Lentamente, fra intoppi burocratici, ritardi e problemi vari, il progetto si concretizza. L’organizzazione richiede un anno intero.

Solo per mettere in ordine i vagoni del treno che trasporterà musicisti, saltimbanchi, trapezisti, mangiafuoco, burattinai e tutti gli artisti che hanno scelto di prendere parte a quella stramba avventura, ci vogliono otto mesi di lavoro. Lavoro duro. Sì perché si tratta di una vera e propria casa viaggiante su rotaia, con tanto di vagone del fuoco che entra in fiamme nelle stazioni, vagone delle comunicazioni per rimanere in contatto radiofonico con Francia e Colombia, vagone del ghiaccio – dove una macchina da vita a un enorme forma di ghiaccio che viene sciolta dalla lingua di fuoco di un’iguana meccanica costruita con materiali di recupero per la gioia dei bambini. Senza scordare il vagone dei tatuaggi e quello adibito a palco per esibirsi lungo la marcia.

In tutto le carrozze sono 21 e, fra tecnici, operai e artisti, vi viaggiano circa 100 persone di varie nazionalità

Il treno, ribattezzato l’expreso del hielo, in onore dello scrittore Gabriel Garcia Marquez, procederà a una media di 20 chilometri all’ora per circa duemila chilometri.

Con la spedizione si imbarca anche Ramon Chao – scrittore, giornalista, autore di libri e responsabile delle trasmissione in spagnolo di Radio France, nonché padre di Manu Chao – che alla fine del lungo tour documenterà l’impresa nel libro Un train de glace et de feu.

Il giro incomincia, ovunque la carovana è accolta da gioia ed entusiasmo, anche se i problemi non mancano: incidenti, mancati finanziamenti, perquisizioni della guerriglia delle FARC, dell’esercito, dei gruppi para-militari foraggiati dai cartelli della droga, il tutto senza sapere se il giorno dopo ci sarà un altro concerto o qualche situazione d’emergenza costringerà tutti a tornare a casa.

La cosa più difficile da spiegare alle varie istituzioni, legali e non, che a turno presiedono la parte interna della Colombia è il perché un gruppo rock francese di buona fama si sia imbarcato in tutto questo, senza guadagnare un dollaro.

Non mancano momenti di tensione, controlli al limite della legalità e paura. D’altronde si sta viaggiando con un treno scassato nella selvaggia Colombia, un far west fuori tempo massimo, fra i territori allora più pericolosi del mondo.

Il 18 novembre del 1993 la carovana arriva a Santa Marta. La Mano è stanca, sono in Colombia da quasi un mese e lo stress inizia a farsi sentire. Jo, il bassista, si è rotto un piede e i promessi sponsor per continuare il tour stanno facendo un passo indietro. Senza considerare che i controlli dei militari a ogni tappa si fanno più insistenti e fastidiosi.

A peggiorare le cose, durante la seconda data a Santa Marta, ci si mette il governatore della città, non esattamente l’idolo dei cittadini. L’uomo pretende di salire sul palco per un breve saluto al pubblico e Manu e i suoi, per evitare ulteriori problemi, sono costretti ad acconsentire. Ma scendere a patti con il potere non è nel nda di Manu Chao e scatta la contromossa. Appena la band inizia a suonare il musicista franco-spagnolo intona el pueblo unido jamas sera vencido, frase simbolo della ribellione in tutto il Sud-America, dal Cile all’Argentina senza dimenticare, ovviamente, la Colombia.

Una follia in un paese in guerra, una follia non senza conseguenze: il giorno dopo quattro membri della Mano Negra lasciano la Colombia per fare ritorno in Francia. Troppo pericoloso restare lì ancora. Quello di Santa Marta sarà l’ultimo concerto della band francese.

Manu invece resta, nonostante la mancanza di sponsor, nonostante le minacce, la paura e i disagi continui. È troppo bello vedere vecchi e bambini poveri che danzano scoprendo sorrisi sdentati al suono delle sue canzoni. E si andrà avanti ancora per settimane finché, ormai a corto di fondi e con il treno ormai a pezzi, la carovana terminerà il suo viaggio.

Manu non ha guadagnato niente da quel viaggio e la sua band è ormai prossima allo scioglimento, che avverrà dopo qualche mese. Eppure quell’esperienza, quei visi segnati dalla vita e dalla povertà, le tante perle di saggezza e verità raccolte lungo il cammino, germoglieranno nella sua mente e faranno un giardino. Un giardino composto di suoni, racconti, abbozzi di idee, frammenti di storie uniche e irripetibili che confluiranno in uno dei dischi più importanti e significativi degli anni novanta: Clandestino.

Molti anni dopo una ragazza di Barcellona partirà per la Colombia, ripercorrendo nel suo viaggio tutto l’itinerario che tanti anni prima percorse la carovana. Con se porterà diverse copie del libro di Ramon Chao da regalare ai tanti campesinos che avevano assistito ai concerti della Mano Negra. Con sorpresa prenderà atto che tutti ricordavano con gioia quell’esperienza, accettando il libro con rispetto e gratitudine. D’altronde quella era la loro storia, la storia di un treno magico che per un po’ di tempo portò follia e libertà d’espressione nel far west del mondo.