BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU: Il disco perfetto per uscire dalla pandemia

di Federico Traversa

C’é una ballata di Bruce Springsteen, profonda e appena sussurrata, che non riesco più ad ascoltare. Si chiama Paradise e già dall’arpeggio iniziale mi porta alle lacrime. La trovate in The Rising, disco datato 2002. La ascoltai la prima volta solo l’anno scorso, quando riaccompagnai a casa mio fratello dopo una delle sue prime sedute di radioterapia, quando ancora eravamo convinti che ce l’avrebbe fatta.

La canzone parla, in maniera accennata, quasi sfocata, dei sentimenti di un estremista prossimo a compiere un atto terroristico. Non so perché mi abbia colpito cosi tanto, forse l’ho legata alla storia di Fabri, perché, alla fine, un tumore, altro non è che un bastardissimo atto terroristico.

Fatto sta che da allora ho iniziato a cercare di approfondire il discorso Springsteen che, tolto qualcosa degli anni 80, non è che mi avesse mai appassionato più di tanto. Lo trovavo poco vario, eccessivamente easy listening, un padrino simpatico ma un po’ incolore di quel rock annacquato da autogrill. Poi c’erano i live, d’accordo, e lì il boss andava lasciato stare, un indiscutibile cavallo di razza, e dei più puri, ma a livello compositivo proprio non riusciva a entrarmi dentro. Per questo gli avevo sempre preferito gente meno pubblicizzata ma ai miei occhi più sanguigna tipo John Mellencamp o, che so, Tom Petty.

Complice Paradise, ho quindi riascoltato quasi tutta la discografia di Springsteen e, mi perdonino i suoi fan, ho solo trovato conferma di quello che già sostenevo: non molto innovativi ma certamente coinvolgenti i dischi degli anni Settanta e Ottanta, discreti ma eccessivamente patinati quelli dei Novanta e abbastanza fuori fuoco i lavori degli ultimi due decenni. Certo, ci sono tanti passaggi piuttosto ispirati anche nella discografia del Boss di questi ultimi anni, proprio Paradise ne è un esempio, ma mediamente c’è ben poco per cui spellarsi le mani.

Perlomeno fino all’ultimo Letter to You, uscito qualche giorno fa, il disco che cambia tutto. Un album di una bellezza, una potenza e una freschezza di suono davvero inaspettati per un signore che ha passato la boa delle settantuno primavere. Dodici canzoni commoventi e calde, come un fuoco che arde in mezzo alla neve, circondato da fantasmi che ballano in cerca della magia degli anni perduti, trovandola immutata in fondo alla strada.

Suonato in presa diretta dai survival della E Street Band e realizzato in soli cinque giorni, Springsteen l’ha definito “l’esperienza di registrazione più bella e intensa della mia vita”. E si sente.

Come ben riassume Gabriele Benzing su Onda Rock:Le chitarre spigolose e taglienti, la batteria solenne, il lirismo di pianoforte e organo, persino l’inconfondibile marchio di fabbrica del sax (con Jake Clemons a fare da controfigura del compianto zio): tutto è esattamente dove lo avevamo lasciato quarant’anni fa, forgiato da un instancabile affiatamento sulle scene. E funziona proprio per questo, perché è quello che Springsteen e la sua gang sanno fare meglio”.

O come mi ricordava stamattina il mio amico Robi Galle al telefono, springsteeniano della prima ora, finalmente non più deluso: “È tornato il Boss! Era da Tunnel of Love che l’aspettavo!”.

Il suono di Letter To You arriva compatto, muscolare eppure meno scontato del solito. Canzoni come Burnin Train e Janey Needs a Shooter (out-take che arriva addirittura dagli anni settanta insieme alle memorabili If I Was a Priest e Song for Orphans) ci consegnano un Bruce tirato, a tratti persino pesante; Last Man Standin e la title-track sembrano preghiere laiche alla musica e agli anni che passano, recitate da chi è ancora in piedi nonostante i tanti colpi che, volente o nolente, ti rifila anno dopo anno la vita.

La canzone d’apertura – Open You’re here – è invece una struggente ballata aperta da una arpeggio morbido che si sposa a un testo poetico e sommesso. Il let motiv del disco non è più il “nato per correre” degli esordi ma il resistere all’ossidazione del tempo, restando in piedi anche quando arriva l’inverno, un po’ come l’immagine che lo ritrae in copertina mentre, testa alta e schiena dritta, attraversa una New York ammantata di neve.

Un album di ricordi e legami indissolubili, come dimostra Ghosts, il secondo singolo, frizzante e tirato omaggio tanto alla vita sul palco quanto agli amici persi lungo il cammino. Amici che si rincontreranno, prima o poi, nella House of A Thousand guitars, pregheranno insieme (The Power of prayer) o magari verranno a trovarci in sogno come nella conclusiva I’ll See you in my dreams, che chiude l’album, con aperture ariose e accordi larghi, come se la E-Street Band stesse spalancando finalmente la soffitta di anni polverosi per fare entrare aria, sole e tanta luce.

E così si chiude Letter to You, forse uno dei lavori più sinceri e ispirati di Bruce Springsteen, un lavoro in cui, al netto del blasone e degli stilemi, a vincere sono onestà e sentimenti di un uomo complesso ma non complicato, che sta attraversando, come tutti noi, questo mare in tempesta che è la vita con rabbia, amore e tanta speranza.

Per questo, e molte altre ragioni, Letter to you é forse il disco perfetto per uscire da questa pandemia, da cantare tutti insieme abbracciati sotto il palco quando questo maledetto momento sarà finito.

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