Archive for Aprile 2021

Perchè si soffre?

disegno di Daria Cadalt

di Federico Traversa

Pineta di Arenzano, riviera ligure. È un caldo ma non afoso pomeriggio d’estate e sono seduto nel patio della casa di Giulio Cesare Giacobbe.

Alla mia destra un Buddha di teak ci osserva benevolo, mentre due grossi alberi ombreggiano una bella fetta di giardino.

Come concordato, oggi inizia la mia intervista col “Buddha”.

Un po’ emozionato, d’altronde non mi capita tutti i giorni di raffrontarmi con personaggi storici, parto con la prima domanda: il motivo per cui soffriamo.

È incredibile se ci pensiamo, ma di persone completamente serene, al mondo, se ne incontrano veramente poche. Anche chi ha tutto, ma proprio tutto, è solito lamentarsi perché gli manca qualcosa.

Ricordo che da piccolo notai questa perenne insoddisfazione negli adulti e feci una specie di sondaggio per cercare di comprenderne il motivo. Evidentemente avevo l’indole del curioso rompiscatole già allora.

Per alcuni mesi domandai a qualsiasi adulto incontrassi se fosse felice o meno. E tutti mi rispondevano con una certa sincerità. Vai a capire perché: sarà stata l’innocenza dei miei otto anni. Ebbene non ne trovai uno che mi dicesse: “Sì, sono felice, sereno e appagato”.

A tutti mancava qualcosa, oppure avevano paura di perdere quello che avevano faticosamente ottenuto. Desideri inappagati e paura di eventuali mancanze. A volte entrambi. Da uscirne pazzi.

Per questo, sebbene la mia prima domanda al Prof potrà a una prima occhiata sembrare banale, a ben vedere non lo è per niente. L’uomo si picchia con questa risposta da quando ancora si aggirava per la giungla con una clava in mano mentre la moglie rassettava la grotta che, si sa, i pipistrelli portano malattie.

Dunque… perché soffriamo?

Secondo il Buddha si soffre per un errore di conoscenza, perché si crede che esistano cose che rimangono uguali a se stesse nel tempo.

Si crede permanente ciò che in realtà è impermanente: la mamma sempre affettuosa e piena d’amore; il marito sempre fedele e innamorato; il conto in banca sempre in attivo, la moglie sempre servizievole e disponibile; la salute sempre perfetta, i figli sempre rispettosi e obbedienti.

La realtà è che non esistono cose, persone o situazioni che rimangono uguali a se stesse.

Noi non viviamo in un universo statico ma in un universo dinamico, dove tutto cambia continuamente.

Credere nella permanenza ci porta a soffrire perché conduce a uno scontro continuo con la realtà, una realtà che ci mette di fronte al fatto che niente è per sempre.

E allora soffriamo.

L’unico modo per non soffrire è accettare il cambiamento.

Accettare il mondo com’è, diverso in ogni momento.

Il segreto della felicità è molto semplice: godersi quello che c’è e non pretendere quello che non c’è.

Però non lo fa nessuno.

Quindi sono tutti infelici.

Se seguissimo tutti l’insegnamento del Buddha, ciò non accadrebbe.

Bisogna accettare l’impermanenza.

Certo, l’impermanenza ci obbliga ad accettare la mancanza di punti di riferimento.

Occorre non essere attaccati a nulla, essere capaci di vivere nell’attimo, nel qui ed ora.

È il “carpe diem” di Orazio.

Per alcuni è dura, lo so.

Per quelli che sono abituati ad accumulare beni, che vivono in funzione del futuro, è molto difficile vivere nel qui ora.

Ma è possibile.

Vi sono persone che lo fanno naturalmente.

Che in modo naturale accettano la realtà e la sua precarietà.

Basta imitarle.

Il lasciarsi andare alla realtà, smetterla di rifiutarla, anzi ammirarla, goderla, è il segreto della felicità.

Certo, so che si può obiettare che nella realtà c’è l’ingiustizia e che il non ribellarsi all’ingiustizia comporta la rinuncia a voler cambiare il mondo, alla rivoluzione.

Ma qui non parliamo di rivoluzione sociale, bensì di rivoluzione individuale.

Il buddhismo non è fatto per i rivoluzionari, per i condottieri, per i conquistatori.

Il buddhismo è fatto per la gente comune.

Per la gente che soffre e che non vuole soffrire più.

Che vuole essere felice.

Vuoi essere felice?

Vuoi rivoluzionare la tua vita?

Non la società ma la tua vita.

Accetta la realtà.

E il suo continuo cambiamento.

Tratto da Intervista Col Buddha di Federico Traversa, edito da Edizioni il Punto d’Incontro

UNA VITA IN CUI TI RICONOSCI

di Federico Traversa

Lavoro perché lavorare mi rende libero, indipendente, e in pace con la mia coscienza. Non lavoro per arricchirmi, tenere ritmi da infarto e passare la vita a rincorrere numeri e algoritmi che qualche economista ossessivo compulsivo ha partorito per sopravvivere alla propria ansia aggiungendo altra ansia. Lo ripeto: lavoro per essere libero. Libero di trascorrere del tempo con le persone che ho scelto, e anche con quelle che non ho scelto. Libero di vedere il sole caldo duettare con la magia del mare, che quando i raggi si stendono sul filo dell’acqua e lasciano guizzare la luce fra le increspature delle onde, c’è da perdere il respiro. Lavoro anche per i bisogni, certo, ma cerco di tenerli a un regime minimo: un tetto dignitoso sopra la testa, le provviste necessarie e la possibilità di spostarmi. Delle eccessive comodità m’importa poco. Dei vestiti ancora meno. In quanto agli oggetti di valore, ne conto tre. Un piccolo Buddha di terracotta con la testa incollata perché i miei figli l’hanno decapitato – prezzo di listino 9,90 – e una campana tibetana che mi regalò mia moglie qualche anno fa a natale. Di quest’ultima il prezzo non lo conosco, ma non credo costi più di una ventina d’euro. Il mio scooter vecchio di 10 anni l’ho demolito, che con due bimbi piccoli lo usavo tre volte all’anno. Ho preso una macchina di seconda mano, abbastanza grossa ma distrutta. Come tutti possiedo un telefono e un portatile con cui lavoro, il primo di seconda mano, il secondo nuovo. Dentro c’è tutto il mio mondo, che vuol dire musica e libri. Finito. Ciò non significa che non abbia aspirazioni a migliorare le mie condizioni di vita. La sola differenza fra il sottoscritto e quella parte d’umanità descritta da Studio Aperto è che le mie aspirazioni sono legate alla qualità della vita stessa e non all’accumulo di oggetti deperibili come un nuovo cellulare iper tecnologico, la visibilità sociale o un paio di tette modello “guarda come combatto la forza di gravità”. Sia chiaro, non giudico né mi permetto di criticare chi sublima la propria insoddisfazione nell’accumulo di oggetti, attenzioni o trasformazioni fisiche capaci di restituirgli quella sicurezza di cui hanno bisogno per abitare la vita.

Dico solo che non fa per me. Credo che siamo tutti al mondo per conoscere e conoscerci, e per farlo serve essere il più possibile leggeri e liberi, soprattutto di testa. Liberi, ad esempio, di disporre il più possibile del proprio tempo per osservare il mondo e le sue mutazioni, per camminare lentamente lungo strade che non si conoscono mai abbastanza, accordando il proprio respiro al rumore del vento.

Anche perché la vita è insicura, breve e pericolosa. Per quanto giovane e in salute tu sia, rilassati, perché un giorno morirai. Ogni minuto che passa ci avvicina tutti alla tomba. E questo che ci piaccia oppure no. Siamo un lampo brevissimo in un lungo spazio scuro. Brrr, che brutta immagine. Diamone una un po’ più simpatica. Siamo come quei pop-up che appaiono un secondo o due nel nostro computer, e quando ci accorgiamo della loro presenza se ne sono già andati. Alcuni sono belli, luminosi e li notiamo per la loro capacità di brillare. Di altri invece non ci accorgiamo per niente e svaniscono senza che nessuno se ne accorga. Eppure entrambi hanno una cosa in comune: la loro presenza nel monitor del nostro pc è brevissima. Esattamente come la vita di ogni uomo o donna su questa terra.

Possiamo preoccuparci, spaventarci, intristirci per questa ineluttabile condizione ma questo non cambierà le cose. Il tempo passerà e prima o poi moriremo. La cosa strana è che la maggior parte di noi vive, agisce e si preoccupa come dovesse vivere per sempre. Se accettassimo la nostra mortalità, probabilmente della nostra vita ne faremmo un uso migliore. Certamente ci incazzeremo meno. Potremmo arrivare persino a ridere della nostra condizione ‘mortale’ e della comicità dell’universo, prendendo in giro tutti quei matti che si picchiano per possedere questo o quello, dimenticando che siamo arrivati in questo mondo senza niente e senza niente da questo mondo ce ne andremo. E svuotando il più possibile la mente dalla pesantezza dei nostri pensieri, un giorno potremmo addirittura arrivare e giocare con la vita, conoscendo più cose possibili del mondo quanto di noi stessi. Sia chiaro: anche in questo secondo caso il tempo passerà ugualmente. Invecchieremo, ci ammaleremo e moriremo, ma magari non oggi. E allora scopriremo che ci sono anche giorni colmi di gioia, profondità e bellezza, e che quando un giorno smetteremo di essere vivi in questa forma mortale torneremo a ricongiungerci con l’energia che soggiace a tutta l’esistenza, sperimentando forme diverse e più sottili di esistenza. Si viene e si va, come canta quel terribile cantautore emiliano che incomprensibilmente in tanti amate. E si ritorna, aggiungerei. Ma non perdiamoci con inutili elucubrazioni filosofiche. Quello che conta è che siamo qui adesso, chiamati a vivere una vita in cui ci riconosciamo completamente. Che poi è l’unica formula infallibile per non avvelenarsela. Senza paura, nessuna paura. Siamo chiamati a vivere tutte le dimensioni possibili che la vita ci serve giorno dopo giorno, belle o brutte che siano. Molte persone vanno dal proprio confidente spirituale – che sia un prete, un monaco, un mullah o un guru – e spesso chiedono: “Padre la prego mi benedica, faccia che non mi accada nulla”. Concettualmente le capisco, sono un cacasotto patentato, ma se ci ripensiamo un attimo, che diavolo di benedizione è? La vera benedizione è che possa accaderci di tutto. Siamo venuti qui per evitare la vita oppure per viverla?

Se siamo venuti per vivere, la benedizione è che le cose ci accadano. Se invece non vogliamo vivere la vita, che in estrema sintesi è un turbinio di avvenimenti continui, cerchiamoci pure un ponte per lanciarci giù perché stare al mondo senza vivere risulta più penoso che essere già morti.

In estrema sintesi, si vive per vivere e fare esperienza. È tutto molto semplice. Quando sei vivo, vivi. E quando sei morto, muori. Ora respiriamo tutti inseme, concentriamoci sui nostri piedi che fanno un passo dietro l’altro… e andiamo.