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La medium, gli aerei vuoti, Maccio Capatonda e il covid-19: Cronache dal mondo del coronavirus di Federico Traversa

In tempi di emergenze, la sostanza degli esseri umani viene fuori in tutta la sua spontaneità. Quando c’é di mezzo la pellaccia le maschere si staccano dai volti, spinte verso terra dall’agitazione, e quello che siamo si svela senza filtri né censure.

Da una decina di giorni ormai, il Coronavirus ha svelato con una virulenta alitata alcune tipologie di persone e schemi di comportamento del nostro amato popolo italiano. 

Ci sono i responsabili, gente che, per dire, segue le direttive del governo ed esce poco di casa, evita i posti affollati, si lava spesso le mani ed ha eliminato i contatti ravvicinati con il prossimo. E se per caso sospetta di essere entrato in contatto col virus si barrica in casa per timore di contagiare qualcuno. I responsabili usano i social con moderazione, condividono solo le interviste dei virologi meno estremisti e nascondono la paura con un certo aplomb.

C’é chi, invece, fa l’esatto opposto e all’urlo di “ma che me ne fotte a me” si trasforma nello straordinario Maccio Capatonda di Italiano Medio. E allora esce, va in mezzo al casino, ti parla a due centimetri dalla faccia, si lava le mani solo quando piove, appoggia le labbra sui tavolini dei bar per misurare la temperatura della plastica e, se deve starnutire, prende la rincorsa, mani dietro la schiena e via. Tanto “che me ne fotte a me” . E se per caso gli tocca la quarantena? “Minchia, tutti a sciare che tanto è solo un’influenza!”.

Ci sono gli anziani terrorizzati che pregano che qualcuno gli faccia la spesa e non usciranno fino a ferragosto, e quelli arzilli e combattivi stile Space Cowboys che invece fanno tutto e anche di più perché, se son sopravvissuti all’asiatica, “a me chi m’ammazza”. 

Ci sono i ragazzini che limonano tutto il giorno e quelli che non limonano più. 

Quelli che “tanto é tutto un complotto ne fan morire ancora un po’ e poi esce il vaccino che già c’é, lo tengono lì per guadagnarci di più”. 

Quelli che “tanto muoiono solo i vecchi e i malati”, e quelli che invece no, “é un virus terribile e ci fotterà tutti”. 

Quelli che pregano e quelli che bestemmiano. Quelli che hanno paura e quelli che ‘m’porta sega’.

I virologi della domenica e i direttori sanitari del lunedì.

Fosse vivo Rino Gaetano riscriverebbe il ritornello della sua hit: “Ma il coronavirus ci rende tutti più blu”

Oggi per la strada ho visto scene surreali, una mescola di atteggiamenti diversi che stridevano come uno che indossa il cappotto con bermuda e infradito. Mi spiego meglio: vado dal medico curante per farmi scrivere le medicine di mia mamma e c’é un cartello con scritto che per via del Covid-19 il dottore riceverà solo su appuntamento. Le scuole intanto sono tutte chiuse, mio figlio il grande non va all’asilo da un bel po’. Camminando becco due con la mascherina sulla faccia, insomma tutti segnali di una severa emergenza. Poi giro in un vicolo ed ecco una ludoteca. Aperta, con bambini che saltano e ballano tutti insieme al chiuso.

Altri dieci metri ed ecco gente ammassata al bancone di un bar, altro che un metro di distanza, nemmeno 20 cm. Per non parlare di un gruppo di rubicondi anziani che, davanti a vino e focaccia, si sfidano in una briscolata all’urlo di “in culo agli dei”

Però la farmacia di fronte chiede ai clienti di entrare massimo due alla volta e ha finito disinfettante per le mani e mascherine.

Leggo poi che molti cantanti stanno continuando a fare i firmacopie dei loro cd nelle varie Feltrinelli o Mondadori che sia.

Ma che cazzo sta succedendo? 

È un film di Fantozzi o una puntata di C.S.I.?

La Peste di Camus o Il Medico della mutua?

Noi italiani siamo incredibili, nel bene o nel male, e lo saremo sempre.

Ma anche nel resto d’Europa non vedo aquile. Ecco, a proposito di voli, su Whats App ricevo un link a un articolo parecchio inquietante: le compagnie aeree stanno consumando migliaia di litri di carburante per far volare aerei vuoti! Il motivo? Nascosto dentro le logiche economiche del nostro pazzo mondo, quelle che ci stanno facendo fracassare contro un muro. Le norme europee in vigore prevedono per le compagnie aeree che operano fuori dal continente di continuare a gestire l’80% delle rotte di volo a loro assegnate, altrimenti devono cederle ad altre, il che vuol dire che non si possono lasciare gli aerei fermi a terra ma vanno fatti volare anche se sono vuoti. Lo so, lo so, piccola Greta, fa più male a me che a te, ma questo è quanto.

Tornato a casa la mazzata finale me la da un amico su facebook che mi spedisce lo screenshot di una pagina del libro di tal Sylvia Browne, professione medium, ma di classe.

Nel suo “End of the Days” (in Italia è uscito col più rassicurante titolo “Profezie”), datato 2008, la Browne scrive: “Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma a causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché dopo aver provocato un inverno di panico assoluto sembrerà scomparire per altri dieci anni, rendendo ancor più difficile comprendere la sua causa e la sua cura”. 

E con la profezia della medium per oggi chiudo le trasmissioni; spero di superare i prossimi due mesi e di rivedervi tutti al mare.

Un bagno a maggio, quest’anno, é doveroso. 

La storia ci ha barrato con una X, Generazione X: cari anni 90 vi scrivo…

di Federico Traversa

Tutto iniziò con Beverly Hills 90210, che sarà stato stupido, vuoto e patinato quanto volete ma ha innegabilmente aperto le porte a un nuovo genere televisivo che ci torturerà negli anni a venire: il teen drama – per dirlo in modo figo, all’americana – o più semplicemente le serie televisive a puntate per ragazzi. Costruita sul modello delle telenovela sudamericane per casalinghe annoiate, moderatamente aperta nell’ affrontare tematiche attuali, seppur trattate con manate di vasellina e politically correct, BH 90210 ha segnato un paio di generazioni agli inizi degli anni novanta, compreso quella del sottoscritto. Classe 1975, vidi la prima puntata che non avevo nemmeno 16 anni e mi fece del male, visto che da allora tarai il pivello che ero sulle fattezze del bello e scorbutico Dylan McKay, una specie di James Dean ricco e problematico portato sullo schermo dal bravo e sfortunato attore Luke Perry. Capitemi, allora si andava in discoteca di sabato pomeriggio e la cosa più eversiva che si faceva era incollare il citofono del vicino calabrese del primo piano, un ex carabiniere in pensione, che ci bucava il pallone quando finiva sul suo terrazzo. Ero conteso da due ragazze in quel periodo, dolci e bellissime entrambe. Una era scura, l’altra bionda. Proprio come Dylan nel telefilm. E proprio come lui scelsi la bionda. Lo so, lo so, da rabbrividire quanto mi facevo coglionare dalla tv. 

A staccarmi di dosso un po’ di patinatura, ci pensarono il cinema, i libri e la musica. A partire da “The Doors” di Oliver Stone, che mi presentò  Jim Morrison.  Il Re Lucertola spazzò via McKay in meno di un’estate e diventò la mia fonte d’ispirazione per la vita. Grazie a Jim, e alla sua scapestrata biografia ‘Nessuno Uscirà Vivo di qui’, scoprii l’amore per la poesia, la letteratura, Rimbaud, Baudelaire, Castaneda, la beat generation, e decisi che nella vita avrei fatto lo scrittore. E l’ho fatto, ragazzi. Ok, non sono diventato Bukowski ma ci campo con un certo stile.

Impossibile non citare poi, nella mia formazione artistoide, Twin Peaks, innovativo capolavoro di David Lynch, una serie capace di segnare per sempre un’epoca. 

Alla voce disimpegno, invece, come dimenticare il Karaoke e quegli anni in cui folletto Fiorello fece credere agli italiani che anche senza il mandolino restavamo un popolo di cantanti. Oppure Non é la Rai, che invece ci ricordò che siamo sempre stati, e sempre saremo, un popolo di eterni segaioli. Già che si fa riferimento a Onan, meritano una citazione i culi al vento delle 18e30, quando su Italia 1 andava in onda Baywatch di Pamelona Anderson. E anche gli agghiaccianti balletti sexi di Spice Girls et simili. 

Stasera la mia mente torna a quelle mattinate in giro, a saltare scuola appena possibile per gli scioperi o l’occupazione, ai bombardamenti nato sul’Iraq, alla guerra che  per la prima volta arrivava in diretta televisiva. Craxi, tangentopoli, l’arrivo di Berlusconi, il Milan di Capello che vinceva molto ma stava sulle palle a tutti. Le domeniche allo stadio, noi sempre in uniforme: bomber, dr Martens, jeans strappati e sciarpa d’ordinanza. La camicia, il maglioncino a righe e il montgomery solo per entrare in discoteca. 

E ancora: i film horror in vks affittati il sabato pomeriggio in videoteca, le playlist, che allora chiamavamo compilation, che facevi alla tipa che ti piaceva e dove non potevano mancare canzoni come Waves of Change degli Scorpions, Don’t Cry dei Guns e Home Sweet Home dei Motley Crue. Ma anche Vivere o Senza Parole del Blasco. E sto citando proprio le più ovvie. Senza scordare il wrestling commentato da Dan Peterson, le puntate di Willy Superfigo di Bel Air, di Casa Keaton, dei Robinson, fino ai concerti bubblegum, ma indimenticabili, di Michael Jackson. Cosby e Jackson: il papà buono che tutti avremmo voluto avere e lo zio strambo e pieno di talento che amava i bambini. Avessimo saputo cosa c’era dietro… 

Poi arrivarono i Nirvana, e Kurt Cobain spazzò via la paura di noi ragazzi di mostrarci per quello che eravamo di fronte a un mondo che stava cambiando. All’improvviso far vedere le proprie debolezze, la propria rabbia e la propria paura non era più oggetto di vergogna come per il macho anni ottanta ma qualcosa che si poteva, anzi doveva fare.

Intanto tutto si stava contaminando, tutto cambiava, gli steccati fra i generi crollarono come castelli di carte vecchie. Il fenomeno dei rave invase le nostre notti, a livello mainstream si affermarono proposte musicali inusuali quali Prodigy, Moby, Fatboy Slim o i Chemical Brothers. Il rock inglese invece si vestiva di vintage e, ribatezzatosi brit pop, proponeva moderne versioni di Beatles e Rolling Stones con gruppi tipo Oasis, Blur, Verve, Stone Roses e così via.

Lontano dal mondo dei rave per una radicata idiosincrasia verso l’insopportabile cassa dritta e mai stato troppo affascinato dai Fab Four – figurarsi i loro cloni – trovai rifugio nella mescola che odorava di contaminazione, nei libri e nei film: Manu Chao, il movimento delle Posse, il gansta rap di Pac e Biggie, i reportage di viaggio di Terzani, The Beach di Alex Garland, vera bibbia per chi in quegli anni virava verso l’Asia, lo schiaffo di Palhaniuk in Fight Club, la carezza pop di Nick Horby con Alta Fedeltà, la siringata di poetico disgusto del Welsh di Trainspotting e Colla, o le botte di John King col suo Fedeli Alla Tribù. Ovviamente tutto Bukowski, e poi John e Dan Fante. Il Brizzi imbastardito di Bastogne e Tre Ragazzi Immaginari. Andrea De Carlo. Gli incubi up-class di Brett Easton Ellis e quelli profumati di minimalismo yuppie di Jay McInerney. I diari di basket del grande Jim Carroll, le illuminazioni tornate attuali di Hesse in Siddharta. E come dimenticare il caschetto scazzato e i pantaloni over size di Natalie Imbruglia, i Red Hot Chili Peppers di Under the Bridge, i film di Gus Van Sant, i surfisti fuorilegge di Point Break, e poi Intervista col Vampiro, i dialoghi surreali di Pulp Fiction, la scena underground italiana che diventa mainstream: Subsonica,  Afterhours, Africa Unite, Prozac + (che la terra ti sia lieve Elisabetta Imelio), Esa, Bluvertigo, Sottotono, ecc. E poi Leo di Caprio che fa Romeo recitando Shakespeare in camicia hawaiana, l’ugola delicata di Jeff Buckley, quella consapevole di Ben Harper, oppure i video degli Aereosmith con Alicia Silverstone e Live Tyler. 

Non puó piovere per sempre” diceva il martire Brandon Lee nel Corvo. 

Io sono ancora vivo” rispondeva Eddie Vedder nell’iconica Alive dei Pearl Jam. 

Ma vi ricordate?

Quanto si era belli, puri, appassionati, difettosi e fragili allora. Tanto tanto fragili. Non era neanche tutta colpa nostra. Eravamo una generazione brutalmente schiacciata, presa in mezzo tra la naufragata illusione che il capitalismo made in Usa ci avrebbe resi tutti ricchi degli ottanta, e la certezza che nel nome di quella falsa illusione  ci avevano fregato persino la sedia da sotto il culo dei 2000 and more.

La storia ci ha barrato con una X, Generazione X, come il bel libro di Douglas Copeland. E così verremo trasmessi ai posteri. 

Oggi di quello strano decennio restano solo i nostri ricordi, frammenti confusi, raffreddati dagli anni, di un momento che é stato veramente nostro giusto il tempo di uno sputo. Atterrato neanche troppo distante. 

Ma Cristo di un Dio se ne é valsa la pena… 


“Coronavirus: viaggio fra bugie, verità e disinfettante per le mani venduto a 99,00” di Federico Traversa

Alla fine il temuto Coronavirus é arrivato massicciamente anche in Italia, con 150 casi accertati, tre decessi e cinque regioni colpite, con la Lombardia a farla da padrone a fronte dei suoi 89 casi. I nostri media hanno salutato questo Covid-19 con strilli degni di una peste seicentesca, maledetta ma anche benedetta, visto che certi ascolti i telegiornali non li fanno mica tutti i giorni. Per non parlare dei quotidiani, che negli editoriali spingono alla prudenza, alla calma, al sacro valore del buonsenso e poi se ne escono con titoli quali “Italia Infetta”, “Prove tecniche di strage”, “Contagi e morte il morbo è tra noi”.

Ma in questa tempesta di notizie, allarmismi, inviti alla prudenza o previsioni di apocalisse, qual’è la verità? Ci sono notizie certe da cui cominciare un’analisi seria? Le informazioni attendibili sono poche, é vero, ma bisogna necessariamente partire da quelle per prendere le misure a questa inattesa emergenza. Rewind quindi.

Tutto comincia dalla città di Wuhan, nel Hubei, un’area della Cina dove dalla fine di dicembre le persone iniziano ad ammalarsi di un nuova malattia della famiglia dei Coronavirus molto simile alla Sars, seppur meno mortale ma più virulenta. Il governo cinese all’inizio prende sottogamba gli avvisi e le preoccupazioni dei medici presenti sul posto e – un po’ per paura di ripercussioni economiche, un po’ per non scalfire il senso di efficienza che vuol mostrare al mondo occidentale – ritarda gli interventi. E quando ci si accorge che il virus è diventato pandemico ormai è troppo tardi, la porta della stalla si chiude ma i cavalli sono già scappati.

Nel mondo globalizzato di oggi, dove in poche ore giri il mondo e in cui la Cina di quel mondo è il principale fornitore, il virus inizia le sue sgradite visite e arriva anche da noi, nonostante le notizie megafonate del governo si vantino del fatto che l’Italia sia il primo paese ad aver chiuso i voli diretti con la Cina. Che è la solita presa in giro nel classico nostro stile perché se io mi trovo in Cina e voglio venire in Italia non mi ferma certo un blocco simile. Mai sentito parlare della parola scalo? Mi togli, faccio per dire, il Roma-Pechino? E io prendo il Pechino-Francoforte e poi il Francoforte-Roma. Problema risolto e probabilmente spendo pure gli stessi soldi.

La cosa strana, semmai, è che in tutti gli altri paesi europei ci sono stati pochi casi, tutti importati, e l’emergenza si è risolta senza focolai. In Germania sono fermi a sedici casi da settimane, in Francia molti meno, in Spagna 2, qualcuno nel nord Europa, fine. Perché da noi siamo a 150, numero in continuo aumento? Cosa abbiamo di diverso dagli altri paesi europei? Si tratta solo di sfortuna o c’è dell’altro? E ancora: quanto è veramente pericoloso questo coronavirus?

Ieri sono andato in farmacia per comprare un ciuccio a mio figlio Leonardo – quella bestiola il suo lo ha rosicchiato fino a distruggerlo – e sentivo il farmacista dire che in tutta la città non si trovavano più mascherine e disinfettante per le mani. Quest’ultimo va via su amazon a 99,00 alla confezione! E io abito a Genova dove, per ora, pare non esserci ancora alcun caso.

È ragionevole tutto questo allarmismo? E a chi giova? Lungi da me fare il complottista, sapete quanto sono distante dall’informazione modello spystory, ma è innegabile che in ogni crisi, di qualsiasi tipo essa sia, seguendo la direzione dei soldi si capiscono molte cose. Quindi nei prossimi mesi suggerisco di tenere d’occhio la borsa.

Divagazioni a parte, torniamo alla domanda che più interessa noi comuni mortali: è ragionevole tutto questo allarmismo?

Anche qui le opinioni divergono. C’è chi dice abbia una mortalità di poco superiore a un’influenza, chi sostiene invece che su vasta scala, cioè diffondendosi a macchia d’olio lungo tutto il globo, potrebbe rivelarsi una seconda spagnola.

A chi credere? Non ci resta che affidarci nuovamente ai freddi numeri che parlano di una mortalità del 2,5% circa in Cina e dello 0,9% nel resto del mondo. Di quel 2,5% circa la metà pare fossero pazienti con cronici problemi di salute. Infine, considerando le tante persone che probabilmente hanno sviluppato il virus in maniera blanda e ne sono guarite senza essere state censite, è ipotizzabile che il dato scenda ancora, presumibilmente fra lo 0,5% e l’1%. Vuol dire che su 100/150 persone che si ammalano, una muore.

Poco? Tanto? Dipende se sei te o un tuo famigliare la persona deceduta.

Parliamo comunque di una percentuale avvicinabile a una gran brutta polmonite, non certo a un’influenza, la cui mortalità è di circa 1 su 2000/2500 casi. Ma non è nemmeno Ebola, che ammazza una persona su 2.

Alla fine il buonsenso, la collaborazione, la buona medicina e un po’ di sano fatalismo dovrebbero bastare a fronteggiare questa emergenza.

Grazie al buonsenso, ad esempio, eviteremo luoghi troppo affollati se non strettamente necessario, rispetteremo le normali norme igieniche, ci laveremo bene le mani e, ricordatelo questo, puliremo pure i nostri amati telefonini. Perché è inutile che immergiate le mani nella candeggina se poi andate a letto con il cellulare e il tablet che avete appoggiato in giro tutto il giorno.

Altra azione di buonsenso è evitare di andare al lavoro se si è ammalati, o mandare i vostri figli a scuola se non stanno bene. Roba elementare ma tant’è…

Se avremo fortuna, complice l’aiuto della primavera e dell’estate, il coronavirus sparirà presto.

In caso contrario affronteremo questa brutta polmonite, consci che la maggior parte delle persone guariscono, sono già oltre 21mila coloro che si sono completamente negativizzati. E se invece saremo tra quella bassa percentuale che non ce la fa, alzeremo le braccia la cielo, pronti a lasciare questo mondo con eleganza, che tanto prima o poi tocca a tutti. Certo, meglio poi…

Ora smettete di toccare ferro e seguitemi in un’ultima riflessione. Non c’entra molto col Coronavirus o forse sì. Ma non sarà che questo mondo che abbiamo costruito c’entri qualcosa? Un mondo opprimente, fatto di inquinamento, stress, alienazione urbana, animali martoriati per confezionare cibo spazzatura, ambienti malsani che portano le percentuali di tumori al massimo storico, il denaro come valore unico e insindacabile a cui piegare tutto e tutti.

Ma non sarà che tutta l’immondizia che mangiamo e respiriamo e tutte le medicine che ingurgitiamo senza averne veramente bisogno hanno reso noi più deboli e i virus più forti? O che magari quelle che noi chiamiamo malattie in realtà sono la cura mandata dalla natura per liberarsi di quel infausto virus chiamato uomo?

Mai come oggi ricordo la profezia di Tiziano Terzani che, in un’intervista pubblicata postuma nel libro “Il pensiero irriducibile”, diceva:

«O noi ci rendiamo conto che è necessario mutare, oppure qualcosa da fuori ci imporrà questa scelta: probabilmente la natura, violentata e saccheggiata, e purtroppo non ascoltata, o qualcos’altro».

Il Coronavirus, con la sua bassa letalità probabilmente è il primo avviso che ci è stato recapitato.

Se non lo recepiamo il prossimo potrebbe essere di ben altro tenore…

Elogio a Tiziano Terzani, alla natura, alla lentezza, al silenzio… e che un fulmine colpisca quel drone!

Inizio questo anno come al solito, e cioé cominciando un libro nuovo. E siccome é un periodo complicato opto per un peso massimo, cioé uno dei libri dei miei autori di riferimento che non ho ancora letto. Sto parlando di scrittori che amo al punto da centellinare la lettura delle varie opere in modo che la loro compagnia duri quanto più possibile. Come nel caso di Tiziano Terzani e delle sue “Lettere contro la Guerra” edito da Longanesi nel 2002. Il libro raccoglie una serie di articoli che Terzani scrisse e pubblicò sul Corriere della Sera a seguito dell’attentato dell’undici settembre. Provato dalla malattia che già avanzava, in quel periodo Tiziano entrava e soprattutto usciva dal mondo sempre con maggior frequenza, trascorrendo mesi isolato nella sua casa alle pendici dell’Himalaya o negli incantevoli boschi del suo rifugio a Orsigna alternati a brevi periodi di nuovo fra le spire della così detta civiltà per presentare i suoi libri o partecipare a qualche conferenza.

Nell’introduzione al testo lo scrittore fiorentino già giganteggia, condividendo la consapevolezza di come il vivere a contatto con il silenzio e l’imperturbabile compiersi dei cicli della natura sia un modo per espandere la propria coscienza, ridare il giusto peso alle cose, conoscersi e conoscere.

Per questo dopo aver letto qualche pagina e vista la bella giornat chiudo il libro e vado con mio figlio più piccolo ai bunker sul monte Gazzo, un prato nascosto nel verde poco distante da casa mia da cui si ha una spettacolare vista del ponente genovese e dove regna sempre, immacolato, il silenzio.

Mio figlio ormai lo sa e quando andiamo mi chiede sempre: “Papà ascoltiamo insieme il silenzio?“.

Tra l’altro il silenzio in una verde collina che raggiungi solo attraverso una vecchia mulattiera è ben diverso dal silenzio di casa tua in città, dove anche alle 2 di notte uno scricchiolio o un bip di qualcosa di elettronico emerge sempre. Invece in mezzo al verde il silenzio è assoluto, avvolgente. E ti rigenera.

Almeno finché, come accaduto oggi, arriva il classico coglione col drone che fa bip bip bip bip.

E i suoi amici felici e contenti a fare casino anche se l’aggeggio non vola, fa solo bip bip bip bip come una sveglia ma non si alza da terra.

Sarà perché siamo vicini all’areoporto che non va” dice il tizio, e io vorrei essere solo un cinghiale per calpestargli il drone e poi scappare via.

Visto che panorama?” aggiunge uno.

Sì pero sbrighiamoci che son di corsa e tanto il drone non va” aggiunge un altro.

Viva Dio se ne vanno. E torna il silenzio.

La cosa mi fa venire in mente il racconto di una donna tibetana che abita in un villaggio sulle montagne, di quelli non assoggettati al progresso, senza comodità. Ora non dico si debba tornare al secolo scorso, molte diavolerie moderne ci hanno salvato, tuttavia trovo il racconto della donna molto sensato:

Nel mio villaggio quando devo prendere l’acqua mi faccio un’ora di cammino fino alla sorgente e poi la trasporto a casa. Per cucinare devo andare dietro casa, prendere la legna e accendere il fuoco. Quando dobbiamo parlare con qualcuno del villaggio vicino ci spettano due ore di cammino. Eppure abbiamo tempo per tutto, persino ce ne avanza.

Quando vado in città da mia sorella, invece,è tutto diverso. Si gira un rubinetto ed esce l’acqua. Si preme una manopola ed ecco il fuoco. Si vuol parlare con qualcuno e c’è il telefono. Eppure al villaggio c’è tempo per tutto mentre in città vanno sempre tutti di corsa e non hanno mai tempo per niente“.

E ora giù dalla mia collina, illustre sconosciuto, tu, il drone e la tua fottuta fretta.

Federico Traversa

Il libro giusto per le anime dolci e vintage che sognano un Natale soul

IO AD ALBERTO LO CHIAMO MAESTRO

Se oggi scrivo di musica, con un occhio particolare alla black music e, entrando nello specifico ancora più specifico, al reggae, il merito è di due persone in particolare, forse tre.

La prima è indiscutibilmente Bob Marley.

La forse terza è Michael Jackson.

La seconda, senza ombra di dubbio, risponde al nome di Alberto Castelli. Con i suoi programmi in radio e le accorate recensioni di incredibili dischi che profumavano di jazz, blues, reggae e soul, il vecchio mods romano mi ha spalancato le porte di un mondo magico che mi ha portato altrove.

Dopo averlo letto e ascoltato per anni, ho timidamente approcciato l’autore di questo libro 10 anni fa, dopo aver terminato la prima stesura di Bob Marley In This Life. Gli scrissi una lunga mail dove lo supplicavo di leggere il mio libercolo su Tuff Gong e, se lo riteneva meritevole, scriverne una postfazione. Non me la sentivo di approcciarmi a Marley senza il beneplacito di uno dei più profondi conoscitori italiani del profeta del reggae. E Alberto quella simbolica benedizione me la diede, sottoforma di un paio di cartelle che con gioia inserii nel libro. E fece di più, accettando di presentare il volume con me nella suggestiva Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Quello che non sapevamo, né io né Alberto, è che quella sarebbe stata l’ultima edizione di quella manifestazione in Italia, e che dall’anno successivo il Rototom si sarebbe scandalosamente trasferito in Spagna per via dei soliti impedimenti, burocratici e non solo, con cui è costretto a combattere chi cerca di organizzare qualcosa in questo paese. Ma non divaghiamo.

Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, “cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili”.

Ero emozionato ma lui mi guidò in una bella chiacchierata che iniziammo davanti a un pubblico di una quarantina di persone, ed eravamo già belli soddisfatti. Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.

Mamma mia” disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri. Bunny, vestito di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, molto meno affabile dell’ex capoccia della Island.

La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato con Bunny non fosse di quell’idea e iniziò ad andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero pazzesco e probabilmente anche ingiusto, se si considera quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo.

Ecco come andò il mio primo incontro col maestro Castelli che da allora – e da quando è nata Chinaski Edizioni, la casa editrice che cerco di dirigere con l’aspirazione di creare una piccola Trojan della letteratura musicale – sogno di pubblicare. E dopo anni il mio desiderio è stato esaudito con il libro migliore che si potesse realizzare, quello che meglio si addice alle caratteristiche di Alberto, che è uno storyteller nato, un bluesman della parola e del racconto, capace di portarci con stile in un lungo viaggio attraverso gli anni d’oro della musica black, dove il groove che suona è motore e carezza per l’anima. Un orgoglio nero che passa con nonchalance da Otis Redding a Bob Marley, da Quincy Jones a Gil Scott Heron, Da Muhammad Ali a Marvin Gaye, dal southern soul ad Amy Winehouse, dalla Motown alla Stax, da Kareem Abdul-Jabbar ad Al Green.

Capito che roba?

Questo non è solo un libro, è un pezzo fondante di storia della musica, una radio distorta e lontana, quasi magica, che vi consiglio di leggere (o sentire? Boh, ve l’ho detto, è magica) la notte, accompagnata dall’ascolto dei brani che racconta. Possibilmente amandovi alla fine di ogni capitolo. Da soli, in coppia, in gruppo, come vi aggrada.

Probabilmente se spargessimo nell’aria una playlist con una piccola parte delle canzoni citate in questo libro il tasso delle nascite aumenterebbe del 300%. E anche quello delle rivolte contro le funeste maglie del potere… dai, sto di nuovo divagando.

Davvero, questo è il libro giusto scritto dallo scrittore giusto sugli artisti giusti che hanno scritto le canzoni giuste.

Ve l’ho detto, io ad Alberto lo chiamo maestro. E Soul to Soul è la lavagna su cui ci impartisce la lezione, un sunto della mitica storia della black music e dei suoi protagonisti, un enorme jam session che passa di città in città e racconta di amori tormentati, treni perduti, flusso naturale e mistico che attraversa l’aria mentre ce ne stiamo seduti a riflettere sulla banchina del porto e un pastore della chiesa di Memphis ci assolve cantando Let’s Stay Together.

Ecco, sto ancora divagando…

Tanto quello che dovevo dire l’ho già detto. Questo libro è un blues che ti porta via. Castelli è un bluesman che ti porta via. Gli artisti raccontati in questo libro ti portano via.

Leggetelo con gioia e moderazione, possibilmente mantenendo una certa eleganza nonostante i momenti difficili.

Federico ‘Sandman’ Traversa

A volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te – Tre libri da leggere per vincere il ritorno al lavoro. Di Federico Traversa

Non è stata una bella estate per il sottoscritto, ci sono stati alcuni problemi da affrontare e la serenità che tanto amo, e a cui tanto bramo, ha bussato poco alla mia porta. Però, fra un’incazzatura e uno scongiuro, la stagione delle vacanze da poco terminata qualcosa di buono mi ha lasciato: il tempo di leggere. E, cosa assai rara, dei tre libri letti nel torrido mese di agosto nessuno mi ha deluso, anzi. Tutti mi hanno motivato a mille nel cercare di focalizzare meglio la mia attenzione, prendermi più tempo per vivere le cose che mi piacciono e che ritengo importanti, e accettare con serenità ciò che non posso cambiare. Più altre varie ed eventuali. Niente male, vero?

E poi c’è ancora chi dice che leggere non serva a niente.

Quindi, amici, eccomi a condividere con voi questi tre gioielli, nella speranza che possano darvi quei benefici che hanno regalato al sottoscritto.

Partiamo dal primo, che ha compiuto un vero miracolo: mi ha fatto tornare la voglia di scrivere. L’avevo persa, credo non sia un segreto, visto che a parte Rock is Dead (scritto più di due anni fa insieme ad Episch e figlio del nostro programma in radio), sono quasi cinque anni che non pubblico qualcosa di nuovo e vivo di ristampe e nuove edizioni dei libri vecchi. Fortunatamente “Un Indovino mi Disse” del grande Tiziano Terzani è riuscito a ricordarmi perché il nostro è un mestiere bellissimo. Perché scrivere è bellissimo.

Si tratta di un testo scritto con cuore e testa che esplora la contraddittoria Asia con la pazienza e la passione con cui si crea un mandala dai mille colori. Due parole sulla trama di questo strepitoso reportage di viaggio: nel 1976 un indovino cinese predice a Terzani che nel 1993 correrà il rischio di morire in un incidente aereo. Giunto alla fine del 1992, il giornalista toscano si ricorda della profezia e decide, più per gioco che per paura, di trascorrere l’intero 1993 senza mai utilizzare aerei ed elicotteri, cosa non semplice se di mestiere fai il corrispondente dall’Asia. Ottenuto da Der Spiegel, il settimanale tedesco per cui lavora, il permesso di non prendere voli per un anno, Terzani racconta il suo incredibile viaggio nel cuore dell’Oriente rispettando la profezia, e quindi muovendosi solo grazie a treni, imbarcazioni, macchine o autobus. E intanto – mentre strada facendo ci racconta magie e tragiche contraddizioni di paesi come Laos, Malesia, Birmania, Cambogia, Mongolia, Cina, Indonesia, Vietnam, eccetera, eccetera – cerca ogni sorta di indovini e astrologi a cui chiedere conferme a proposito della macabra profezia. Un libro non solo da leggere ma da vivere, possibilmente pianificando il prossimo viaggio con la consapevolezza che è sempre meglio, come diceva Terzani, essere pellegrini che turisti.

Ma ora cambiamo genere. Ve lo ricordate il “Il Grande Lebowski?” Più che un film una filosofia di vita, e infatti così viene trattato nello straordinario libro intitolato “Il Drugo e il Maestro di Zen” di Jeff Bridges e Bernie Glassman. Il primo è lo straordinario attore che interpretava lo stralunato Lebowski; buddista praticate da anni, talentuoso musicista e ricercatore spirituale, Jeff è un tipo decisamente interessante. Ma mai come Bernie, l’altro autore del libro. Ex ingegnere aerospaziale, poi maestro di zen fra i più apprezzati degli States, clown per i bambini vittime della guerra e filantropo per i senza tetto del paese, la sua visione della vita è di una semplicità e una bontà quasi disarmanti. I due, amici da una vita, passano un lungo fine settimana insieme in mezzo alla natura discutendo di zen, cinema, filosofia, amore, morte, nascita e vita, fra una citazione del Buddha e una del ‘drugo’. Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di tanto profondo e rinfrescante.

Il terzo libro, che ho riletto a distanza di venticinque anni dalla prima volta, più che insegnarmi qualcosa mi ha ricordato quello che già sapevo: non esiste il paradiso e la droga fa male. Pubblicato agli inizi degli anni settanta, “Flash – Katmandu il grande Viaggio” è un capolavoro, forse il più bel libro di viaggio tout court che abbia letto. Se qualcuno ne conosce altri ugualmente avvincenti è pregato di comunicarmelo all’istante. Flash è un libro che leggi a diciassette anni e poi inizi a viaggiare e a drogarti. Poi lo rileggi a 30 e, sei furbo, smetti e torni a casa.

Alla mia età invece te lo godi e basta. Ti godi il racconto di un oriente mitico che non esiste più. Ti godi l’esodo dei giovani hippy che sognavano un nuovo mondo possibile e che il potere ha annientato con speculazioni facili e droga a buon mercato. Ti godi l’innocenza di un mondo che si rallegrava nel progresso ancora ignaro che poi sarebbe arrivato il conto.

Anche qui due parole sulla trama: siamo nel 1969 e il francese Charles Duchassois, allora quasi trentenne, è un tipo sgamato che decide di viaggiare libero in cerca d’avventura ed esperienze forti. Il suo pellegrinaggio lo porta sulle montagne del Libano, con il traffico d’armi e la raccolta dell’hashish, salvo poi condurlo a Istanbul, dove scopre che fumare lo chilon è un’esperienza parecchio divertente; quindi va a Bagdad e poi in India, dove sperimenta l’oppio e altre esotiche stranezze locali, prima che una storia d’amore sbagliata lo conduca nell’inferno di Katmandu dove allora la droga, tutta la droga, è praticamente libera e accessibile a tutti. Da qui la disperata discesa in un inferno fatto di morfina, metedrina, e ogni genere di porcheria. Un degrado inarrestabile che spinge l’autore a scegliere di lasciarsi morire di droga e stenti sulle montagne nepalesi.

Non accadrà, verrà salvato e rimpatriato in Francia, e con il suo arrivo l’occidente per la prima volta vedrà come si riduce un uomo quando diventa un vero e proprio junkie.

Eccole le mie tre chicche, i miei libri da leggere per vincere il ritorno al lavoro e, motivati a mille, magari cambiarlo se non vi soddisfa, oppure salutare tutti, prendere le proprie cose e andare in Asia in treno. O, se siete tipi più rudi, volare fino a Katmandu in cerca di emozioni forti, ma con giudizio sennò vi rimpatriano completamente pazzi che pesate trenta chili.

Personalmente preferisco un bel fine settimana lungo, nella natura, a discutere con qualche amico saggio di quanto zen sia la frase: “A volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te”. D’altronde non sono mai stato questo grande viaggiatore… e comunque il Buddha che conservo sulla mensola, credetemi, dà davvero un tono all’ambiente.

“Una tranquilla estate di paura”di Federico Traversa

Come estate non è stata il massimo, ammettiamolo. La definirei “Una tranquilla estate di paura”, storpiando il titolo di un celebre film.

La foresta amazzonica che brucia. Sempre più plastica ad affogare l’oceano e avvelenare i pesci. L’ebola in Nuova Guinea che ammazza con disarmante facilità ma siccome non esce dall’Africa e non c’è da lucrare troppo sul vaccino – che tra l’altro già c’è – i fratelli neri vengono lasciati morire tra atroci sofferenze. I ghiacciai che si sciolgono alla velocità della luce. Un mondo le cui proiezioni più ottimistiche vedono a un passo dall’autodistruzione. E noi sui social a chiederci chi ci sia dietro Greta Thunberg, cosa realmente voglia questa nuova lobby ecologica o, peggio, perdendoci in ridicole quanto inutili ipotesi sulla crisi di governo.

Già perché mentre il mondo avvelenato ‘ha da pensar a cose più serie, costruir su macerie e mantenersi vivo‘, qui da noi è caduto pure il governo gialloverde, con buona pace di tanti ma non di tutti, e sta per nascere quello giallorosso. Praticamente si fa il giro dell’arcobaleno nella speranza che un daltonico ci metta una pezza.

Roba tosta, amici, in tutti i sensi.

Ma partiamo dagli incendi in Amazzonia, il polmone verde che ossigena questo nostro pazzo mondo. E noi che si fa? Lo si preserva? Macché, si arrostisce una bella fetta di foresta, che già è in pericolosa regressione da decenni, e tanti saluti. Ma perché siamo tanto idioti? La risposta è quasi più stupida della nostra economia di massa: per far posto agli allevamenti intensivi di bestie o di mangimi per le suddette.

Amici vegani non esultate. Se smettessimo di mangiare carne – scelta comunque etica che condivido e apprezzo – non si risolverebbe il problema e lo stesso enorme spazio verrebbe probabilmente utilizzato per coltivare la beneamata soia, che sta alla base di qualsiasi dieta non carnivora.

Il problema è un altro: a questo mondo ormai siamo in troppi. Nel 1900 si stima che la popolazione mondiale fosse di un miliardo e 650 milioni. Nel 1950 è salita a due miliardi e mezzo e nel 2000 è arrivata a sei miliardi mentre oggi siamo circa 7 miliardi e settecento milioni di persone. Praticamente in cento anni ci siamo quasi quintuplicati! Peccato che la superficie della terra sia sempre la stessa, anzi quella vivibile sempre meno perché con il riscaldamento globale alcune zone stanno diventando non più adatte alla vita.

E quindi? Quindi anche un bambino capirebbe che così non può funzionare. E sempre quello stesso bambino suggerirebbe di smetterla di invitare la popolazione a consumare risorse come se fossero infinite, smettere di esortare le persone a fare figli su figli perché tra poco non ci saranno più spazi e risorse a sufficienza per tutti. Ma il nostro sistema economico si guarda bene da suggerire una cosa del genere perché si basa sul consumo e sui debiti contratti dai nuovi nati, che saranno chiamati a lavorare per pagare le misere pensioni degli ultrasettantenni (perché fino ad allora si sarà costretti a lavorare fra non molto) che, grazie al business delle medicine, forse vivranno qualche anno in più.

Un sistema pazzo e fallimentare che quando crollerà farà tanto, tantissimo rumore. Un sistema che non può vincere. Perché è perverso – come diceva il grande Tiziano Terzani – pensare che progresso voglia dire crescita. Un concetto assurdo legittimato dagli occhi a forma di dollaro e dall’ignoranza di chi tira le fila di questa sanguinaria economia globale. Ma perché invece di inseguire la crescita ogni anno non proviamo a produrre lo stesso lavorando e consumando di meno?

Simili pensieri nell’economia attuale sono considerati bestemmie. Quando in qualità di responsabile editoriale di Chinaski Edizioni vengo invitato all’annuale incontro con le varie reti vendita oppure le librerie di catena, non ci si raffronta mica sui programmi, sull’etica, sui sogni. Manco per le palle. Si ragiona sui numeri. Quest’anno hai fatturato 10 con tre libri, un altr’anno devi fare 15 con cinque libri. E se tu provi a dire: “Ok, ma se facessi 9 con due libri sarebbe ugualmente buono, non credete?” vieni additato come un hippy di merda che non sa stare al mondo e non ha voglia di lavorare. Uno smidollato senza sogni, che si accontenta.

E qui parlo del nobile mondo dell’editoria ma credo che negli altri ambienti forse sia anche peggio.

Non capiamo più che siamo qui di passaggio, che la transitorietà tanto nostra che della materia che possediamo deve essere l’unica bussola per vivere in maniera più consapevole, distaccata e fiera, con il traguardo ultimo di lasciare questo mondo che ci ha accolto un po’ meglio di come lo abbiamo trovato. ‘Fasti non foste a viver come bruti‘ scriveva Dante, e nemmeno per consumare a bocca aperta come maiali in un porcile aggiungerei. La natura non è lì perché l’uomo ne faccia quello che vuole. La vita è una danza di tutte le componenti dell’universo che funziona al meglio quando è armonica. È un oceano pieno di plastica non è armonico, così come non lo sono una foresta che brucia, file chilometriche di auto incolonnate per chissà dove, le zucchine e i pomodori tutto l’anno o il mangiare frutta e carne che vengono da paesi che non hai mai sentito nominare, distanti anni luce esattamente come lo siamo noi da quella magnifica armonia che sta alla base della vita.

Occhio perché se questa è stata una tranquilla estate di paura, le prossime potrebbero essere “The Day After”, parafrasando un altro vecchio film che mostrava il mondo il giorno successivo a un conflitto nucleare. Ma se allora la fine era segnata dalla bomba atomica oggi è tutto, se possibile, ancora più stupido eppure sottile.

Ci estingueremo per comodità: un peccato mortale.

Il film sui Queen non mi ha convinto ma la rapsodia italiana è un’altra cosa…

“Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer non è piaciuto più di tanto. Lo so, probabilmente sono uno degli unici al mondo, ma la cosa, vi assicuro, non mi fa sentire speciale. Probabilmente non ho colto delle cose, nel caso segnalatemele, ma prima lasciate che argomenti sul perché la visione della pellicola mi ha lasciato un po’ così, come uno che prenota sei mesi prima per mangiare in quel determinato ristorante e, dopo la tanto agognata cena, si trova a sbadigliare insoddisfatto: “Tutto qui?”.

Partiamo da un dato di fatto: fare biopic fedeli alla storia e allo stesso tempo avvincenti, condensando il tutto in una pellicola di meno di tre ore, è difficilissimo. Quasi impossibile. Quindi la prima regola quando ci si approccia a questo genere di film è non essere integralisti e troppo legati al dettaglio. Tuttavia, quando per amore del drama un personaggio complesso e sfaccettato come Freddie Mercury viene raffigurato alla stregua di una checca egocentrica in pieno trip ormonale per due ore e mezza di film qualcosa non torna. Capitemi, io non ce l’ho con l’interpretazione al limite della nevrosi del bravo Rami Malek, che è un ottimo attore e il cui unico limite, nella circostanza, è quello di non avere quella fisicità animale che rese unico Mercury. Esattamente come non ce l’avevo con Val Kilmer, che nel 1991 interpretò magistralmente Jim Morrison nel film “The Doors”. Lo fece benissimo, davvero, peccato però che Morrison non era soltanto il bel giovane alcolizzato in fissa con la poesia che tinteggiò Stone. C’era ben altro, esattamente come nel caso di Mercury. Ecco, trovo i due film molto simili, sia nei pregi – una fotografia sontuosa, colonna sonora da paura, attori somiglianti e incisivi, una trama emozionante – che nei difetti, su tutti una definizione al limite della macchietta dei due iconici protagonisti che vanifica il resto. Paradossalmente ho trovato più aderente alla realtà “The Dirt” di Jeff Tremaine, il biopic sui Motley Crue, che probabilmente aveva meno pretese autoriali ma ha confezionato una pellicola godibile, tosta, che non scende mai nel caricaturale nonostante si spinga spesso over the limit. Se poi andiamo indietro negli anni, capolavori del genere come Walk The Line – dedicato al man in black Johnny Cash – e Ray, sulla vita di Ray Charles, mi sembrano di un’altra categoria. E sto citando i primi che mi vengono in mente. Non saranno capolavori ma a me sono piaciuti di più pure “Control” su Ian Curtis, “The Runaways” e “8Mile”, anche se definire quest’ultimo un biopic è riduttivo.

Premesso questo, bisogna ammettere che “Bohemian Rhapsody” è stata una manna dal cielo per tutto ciò che circola intorno alla musica: film, libri, riviste di settore. La nicchia, perché questo ormai siamo, di noi addetti ai lavori è tornata per un momento a sentirsi protagonista di qualcosa non soltanto circoscritta a pochi intimi. E altri film stanno arrivando. “Rocketman”, dedicato a Elton John, è vicinissimo all’uscita e si vocifera si stia per girare un biopic pure su sua Maestà David Bowie. Anche il moribondissimo mondo dei libri musicali ha fatto felice il proprio defibrillatore, con i librai – solitamente lontani dai titoli musicali come i vampiri dall’aglio – un po’ più aperti verso il genere. E pure gli scrittori. Infatti in Chinaski è arrivato Antonio Pellegrini a proporci un gran bel titolo che esce il prossimo 15 maggio: “Italian Rhapsody – L’avventura dei Queen in Italia”. Il libro giusto al momento giusto. Di cosa parla? Dello straordinario rapporto di amore reciproco tra i Queen e l’Italia. Un legame nato nel 1984, l’anno d’oro della band nel nostro paese, con le due esibizioni di “Radio Ga Ga” al Festival di Sanremo e i meravigliosi concerti milanesi del 14 e 15 settembre. Il volume di Antonio riporta aneddoti, curiosità, interviste, testimonianze inedite e foto rare o mai pubblicate. Arricchiscono il lavoro una preziosa raccolta di articoli di leggendarie riviste musicali italiane nonché una sezione dedicata ai progetti portati avanti da Brian May e Roger Taylor, i loro live in Italia, la nascita della sigla Queen+ che li vede, negli anni 2000, prima con lo storico cantante rock blues Paul Rodgers e poi con il giovane Adam Lambert.

Realizzato con il pieno supporto e la collaborazione di QueenItalia, la community italiana dei fan dei Queen, che ha fornito prezioso materiale,“Italian Rhapsody” è una testimonianza lucida e completa per conoscere approfonditamente uno spaccato di storia legata al nostro paese di una delle band più iconiche della storia del rock.

Una rapsodia italiana che mi ha colpito decisamente più del film.

E di questo umilmente chiedo venia…

Federico Traversa