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La storia ci ha barrato con una X, Generazione X: cari anni 90 vi scrivo…

di Federico Traversa

Tutto iniziò con Beverly Hills 90210, che sarà stato stupido, vuoto e patinato quanto volete ma ha innegabilmente aperto le porte a un nuovo genere televisivo che ci torturerà negli anni a venire: il teen drama – per dirlo in modo figo, all’americana – o più semplicemente le serie televisive a puntate per ragazzi. Costruita sul modello delle telenovela sudamericane per casalinghe annoiate, moderatamente aperta nell’ affrontare tematiche attuali, seppur trattate con manate di vasellina e politically correct, BH 90210 ha segnato un paio di generazioni agli inizi degli anni novanta, compreso quella del sottoscritto. Classe 1975, vidi la prima puntata che non avevo nemmeno 16 anni e mi fece del male, visto che da allora tarai il pivello che ero sulle fattezze del bello e scorbutico Dylan McKay, una specie di James Dean ricco e problematico portato sullo schermo dal bravo e sfortunato attore Luke Perry. Capitemi, allora si andava in discoteca di sabato pomeriggio e la cosa più eversiva che si faceva era incollare il citofono del vicino calabrese del primo piano, un ex carabiniere in pensione, che ci bucava il pallone quando finiva sul suo terrazzo. Ero conteso da due ragazze in quel periodo, dolci e bellissime entrambe. Una era scura, l’altra bionda. Proprio come Dylan nel telefilm. E proprio come lui scelsi la bionda. Lo so, lo so, da rabbrividire quanto mi facevo coglionare dalla tv. 

A staccarmi di dosso un po’ di patinatura, ci pensarono il cinema, i libri e la musica. A partire da “The Doors” di Oliver Stone, che mi presentò  Jim Morrison.  Il Re Lucertola spazzò via McKay in meno di un’estate e diventò la mia fonte d’ispirazione per la vita. Grazie a Jim, e alla sua scapestrata biografia ‘Nessuno Uscirà Vivo di qui’, scoprii l’amore per la poesia, la letteratura, Rimbaud, Baudelaire, Castaneda, la beat generation, e decisi che nella vita avrei fatto lo scrittore. E l’ho fatto, ragazzi. Ok, non sono diventato Bukowski ma ci campo con un certo stile.

Impossibile non citare poi, nella mia formazione artistoide, Twin Peaks, innovativo capolavoro di David Lynch, una serie capace di segnare per sempre un’epoca. 

Alla voce disimpegno, invece, come dimenticare il Karaoke e quegli anni in cui folletto Fiorello fece credere agli italiani che anche senza il mandolino restavamo un popolo di cantanti. Oppure Non é la Rai, che invece ci ricordò che siamo sempre stati, e sempre saremo, un popolo di eterni segaioli. Già che si fa riferimento a Onan, meritano una citazione i culi al vento delle 18e30, quando su Italia 1 andava in onda Baywatch di Pamelona Anderson. E anche gli agghiaccianti balletti sexi di Spice Girls et simili. 

Stasera la mia mente torna a quelle mattinate in giro, a saltare scuola appena possibile per gli scioperi o l’occupazione, ai bombardamenti nato sul’Iraq, alla guerra che  per la prima volta arrivava in diretta televisiva. Craxi, tangentopoli, l’arrivo di Berlusconi, il Milan di Capello che vinceva molto ma stava sulle palle a tutti. Le domeniche allo stadio, noi sempre in uniforme: bomber, dr Martens, jeans strappati e sciarpa d’ordinanza. La camicia, il maglioncino a righe e il montgomery solo per entrare in discoteca. 

E ancora: i film horror in vks affittati il sabato pomeriggio in videoteca, le playlist, che allora chiamavamo compilation, che facevi alla tipa che ti piaceva e dove non potevano mancare canzoni come Waves of Change degli Scorpions, Don’t Cry dei Guns e Home Sweet Home dei Motley Crue. Ma anche Vivere o Senza Parole del Blasco. E sto citando proprio le più ovvie. Senza scordare il wrestling commentato da Dan Peterson, le puntate di Willy Superfigo di Bel Air, di Casa Keaton, dei Robinson, fino ai concerti bubblegum, ma indimenticabili, di Michael Jackson. Cosby e Jackson: il papà buono che tutti avremmo voluto avere e lo zio strambo e pieno di talento che amava i bambini. Avessimo saputo cosa c’era dietro… 

Poi arrivarono i Nirvana, e Kurt Cobain spazzò via la paura di noi ragazzi di mostrarci per quello che eravamo di fronte a un mondo che stava cambiando. All’improvviso far vedere le proprie debolezze, la propria rabbia e la propria paura non era più oggetto di vergogna come per il macho anni ottanta ma qualcosa che si poteva, anzi doveva fare.

Intanto tutto si stava contaminando, tutto cambiava, gli steccati fra i generi crollarono come castelli di carte vecchie. Il fenomeno dei rave invase le nostre notti, a livello mainstream si affermarono proposte musicali inusuali quali Prodigy, Moby, Fatboy Slim o i Chemical Brothers. Il rock inglese invece si vestiva di vintage e, ribatezzatosi brit pop, proponeva moderne versioni di Beatles e Rolling Stones con gruppi tipo Oasis, Blur, Verve, Stone Roses e così via.

Lontano dal mondo dei rave per una radicata idiosincrasia verso l’insopportabile cassa dritta e mai stato troppo affascinato dai Fab Four – figurarsi i loro cloni – trovai rifugio nella mescola che odorava di contaminazione, nei libri e nei film: Manu Chao, il movimento delle Posse, il gansta rap di Pac e Biggie, i reportage di viaggio di Terzani, The Beach di Alex Garland, vera bibbia per chi in quegli anni virava verso l’Asia, lo schiaffo di Palhaniuk in Fight Club, la carezza pop di Nick Horby con Alta Fedeltà, la siringata di poetico disgusto del Welsh di Trainspotting e Colla, o le botte di John King col suo Fedeli Alla Tribù. Ovviamente tutto Bukowski, e poi John e Dan Fante. Il Brizzi imbastardito di Bastogne e Tre Ragazzi Immaginari. Andrea De Carlo. Gli incubi up-class di Brett Easton Ellis e quelli profumati di minimalismo yuppie di Jay McInerney. I diari di basket del grande Jim Carroll, le illuminazioni tornate attuali di Hesse in Siddharta. E come dimenticare il caschetto scazzato e i pantaloni over size di Natalie Imbruglia, i Red Hot Chili Peppers di Under the Bridge, i film di Gus Van Sant, i surfisti fuorilegge di Point Break, e poi Intervista col Vampiro, i dialoghi surreali di Pulp Fiction, la scena underground italiana che diventa mainstream: Subsonica,  Afterhours, Africa Unite, Prozac + (che la terra ti sia lieve Elisabetta Imelio), Esa, Bluvertigo, Sottotono, ecc. E poi Leo di Caprio che fa Romeo recitando Shakespeare in camicia hawaiana, l’ugola delicata di Jeff Buckley, quella consapevole di Ben Harper, oppure i video degli Aereosmith con Alicia Silverstone e Live Tyler. 

Non puó piovere per sempre” diceva il martire Brandon Lee nel Corvo. 

Io sono ancora vivo” rispondeva Eddie Vedder nell’iconica Alive dei Pearl Jam. 

Ma vi ricordate?

Quanto si era belli, puri, appassionati, difettosi e fragili allora. Tanto tanto fragili. Non era neanche tutta colpa nostra. Eravamo una generazione brutalmente schiacciata, presa in mezzo tra la naufragata illusione che il capitalismo made in Usa ci avrebbe resi tutti ricchi degli ottanta, e la certezza che nel nome di quella falsa illusione  ci avevano fregato persino la sedia da sotto il culo dei 2000 and more.

La storia ci ha barrato con una X, Generazione X, come il bel libro di Douglas Copeland. E così verremo trasmessi ai posteri. 

Oggi di quello strano decennio restano solo i nostri ricordi, frammenti confusi, raffreddati dagli anni, di un momento che é stato veramente nostro giusto il tempo di uno sputo. Atterrato neanche troppo distante. 

Ma Cristo di un Dio se ne é valsa la pena… 


“Coronavirus: viaggio fra bugie, verità e disinfettante per le mani venduto a 99,00” di Federico Traversa

Alla fine il temuto Coronavirus é arrivato massicciamente anche in Italia, con 150 casi accertati, tre decessi e cinque regioni colpite, con la Lombardia a farla da padrone a fronte dei suoi 89 casi. I nostri media hanno salutato questo Covid-19 con strilli degni di una peste seicentesca, maledetta ma anche benedetta, visto che certi ascolti i telegiornali non li fanno mica tutti i giorni. Per non parlare dei quotidiani, che negli editoriali spingono alla prudenza, alla calma, al sacro valore del buonsenso e poi se ne escono con titoli quali “Italia Infetta”, “Prove tecniche di strage”, “Contagi e morte il morbo è tra noi”.

Ma in questa tempesta di notizie, allarmismi, inviti alla prudenza o previsioni di apocalisse, qual’è la verità? Ci sono notizie certe da cui cominciare un’analisi seria? Le informazioni attendibili sono poche, é vero, ma bisogna necessariamente partire da quelle per prendere le misure a questa inattesa emergenza. Rewind quindi.

Tutto comincia dalla città di Wuhan, nel Hubei, un’area della Cina dove dalla fine di dicembre le persone iniziano ad ammalarsi di un nuova malattia della famiglia dei Coronavirus molto simile alla Sars, seppur meno mortale ma più virulenta. Il governo cinese all’inizio prende sottogamba gli avvisi e le preoccupazioni dei medici presenti sul posto e – un po’ per paura di ripercussioni economiche, un po’ per non scalfire il senso di efficienza che vuol mostrare al mondo occidentale – ritarda gli interventi. E quando ci si accorge che il virus è diventato pandemico ormai è troppo tardi, la porta della stalla si chiude ma i cavalli sono già scappati.

Nel mondo globalizzato di oggi, dove in poche ore giri il mondo e in cui la Cina di quel mondo è il principale fornitore, il virus inizia le sue sgradite visite e arriva anche da noi, nonostante le notizie megafonate del governo si vantino del fatto che l’Italia sia il primo paese ad aver chiuso i voli diretti con la Cina. Che è la solita presa in giro nel classico nostro stile perché se io mi trovo in Cina e voglio venire in Italia non mi ferma certo un blocco simile. Mai sentito parlare della parola scalo? Mi togli, faccio per dire, il Roma-Pechino? E io prendo il Pechino-Francoforte e poi il Francoforte-Roma. Problema risolto e probabilmente spendo pure gli stessi soldi.

La cosa strana, semmai, è che in tutti gli altri paesi europei ci sono stati pochi casi, tutti importati, e l’emergenza si è risolta senza focolai. In Germania sono fermi a sedici casi da settimane, in Francia molti meno, in Spagna 2, qualcuno nel nord Europa, fine. Perché da noi siamo a 150, numero in continuo aumento? Cosa abbiamo di diverso dagli altri paesi europei? Si tratta solo di sfortuna o c’è dell’altro? E ancora: quanto è veramente pericoloso questo coronavirus?

Ieri sono andato in farmacia per comprare un ciuccio a mio figlio Leonardo – quella bestiola il suo lo ha rosicchiato fino a distruggerlo – e sentivo il farmacista dire che in tutta la città non si trovavano più mascherine e disinfettante per le mani. Quest’ultimo va via su amazon a 99,00 alla confezione! E io abito a Genova dove, per ora, pare non esserci ancora alcun caso.

È ragionevole tutto questo allarmismo? E a chi giova? Lungi da me fare il complottista, sapete quanto sono distante dall’informazione modello spystory, ma è innegabile che in ogni crisi, di qualsiasi tipo essa sia, seguendo la direzione dei soldi si capiscono molte cose. Quindi nei prossimi mesi suggerisco di tenere d’occhio la borsa.

Divagazioni a parte, torniamo alla domanda che più interessa noi comuni mortali: è ragionevole tutto questo allarmismo?

Anche qui le opinioni divergono. C’è chi dice abbia una mortalità di poco superiore a un’influenza, chi sostiene invece che su vasta scala, cioè diffondendosi a macchia d’olio lungo tutto il globo, potrebbe rivelarsi una seconda spagnola.

A chi credere? Non ci resta che affidarci nuovamente ai freddi numeri che parlano di una mortalità del 2,5% circa in Cina e dello 0,9% nel resto del mondo. Di quel 2,5% circa la metà pare fossero pazienti con cronici problemi di salute. Infine, considerando le tante persone che probabilmente hanno sviluppato il virus in maniera blanda e ne sono guarite senza essere state censite, è ipotizzabile che il dato scenda ancora, presumibilmente fra lo 0,5% e l’1%. Vuol dire che su 100/150 persone che si ammalano, una muore.

Poco? Tanto? Dipende se sei te o un tuo famigliare la persona deceduta.

Parliamo comunque di una percentuale avvicinabile a una gran brutta polmonite, non certo a un’influenza, la cui mortalità è di circa 1 su 2000/2500 casi. Ma non è nemmeno Ebola, che ammazza una persona su 2.

Alla fine il buonsenso, la collaborazione, la buona medicina e un po’ di sano fatalismo dovrebbero bastare a fronteggiare questa emergenza.

Grazie al buonsenso, ad esempio, eviteremo luoghi troppo affollati se non strettamente necessario, rispetteremo le normali norme igieniche, ci laveremo bene le mani e, ricordatelo questo, puliremo pure i nostri amati telefonini. Perché è inutile che immergiate le mani nella candeggina se poi andate a letto con il cellulare e il tablet che avete appoggiato in giro tutto il giorno.

Altra azione di buonsenso è evitare di andare al lavoro se si è ammalati, o mandare i vostri figli a scuola se non stanno bene. Roba elementare ma tant’è…

Se avremo fortuna, complice l’aiuto della primavera e dell’estate, il coronavirus sparirà presto.

In caso contrario affronteremo questa brutta polmonite, consci che la maggior parte delle persone guariscono, sono già oltre 21mila coloro che si sono completamente negativizzati. E se invece saremo tra quella bassa percentuale che non ce la fa, alzeremo le braccia la cielo, pronti a lasciare questo mondo con eleganza, che tanto prima o poi tocca a tutti. Certo, meglio poi…

Ora smettete di toccare ferro e seguitemi in un’ultima riflessione. Non c’entra molto col Coronavirus o forse sì. Ma non sarà che questo mondo che abbiamo costruito c’entri qualcosa? Un mondo opprimente, fatto di inquinamento, stress, alienazione urbana, animali martoriati per confezionare cibo spazzatura, ambienti malsani che portano le percentuali di tumori al massimo storico, il denaro come valore unico e insindacabile a cui piegare tutto e tutti.

Ma non sarà che tutta l’immondizia che mangiamo e respiriamo e tutte le medicine che ingurgitiamo senza averne veramente bisogno hanno reso noi più deboli e i virus più forti? O che magari quelle che noi chiamiamo malattie in realtà sono la cura mandata dalla natura per liberarsi di quel infausto virus chiamato uomo?

Mai come oggi ricordo la profezia di Tiziano Terzani che, in un’intervista pubblicata postuma nel libro “Il pensiero irriducibile”, diceva:

«O noi ci rendiamo conto che è necessario mutare, oppure qualcosa da fuori ci imporrà questa scelta: probabilmente la natura, violentata e saccheggiata, e purtroppo non ascoltata, o qualcos’altro».

Il Coronavirus, con la sua bassa letalità probabilmente è il primo avviso che ci è stato recapitato.

Se non lo recepiamo il prossimo potrebbe essere di ben altro tenore…

Elogio a Tiziano Terzani, alla natura, alla lentezza, al silenzio… e che un fulmine colpisca quel drone!

Inizio questo anno come al solito, e cioé cominciando un libro nuovo. E siccome é un periodo complicato opto per un peso massimo, cioé uno dei libri dei miei autori di riferimento che non ho ancora letto. Sto parlando di scrittori che amo al punto da centellinare la lettura delle varie opere in modo che la loro compagnia duri quanto più possibile. Come nel caso di Tiziano Terzani e delle sue “Lettere contro la Guerra” edito da Longanesi nel 2002. Il libro raccoglie una serie di articoli che Terzani scrisse e pubblicò sul Corriere della Sera a seguito dell’attentato dell’undici settembre. Provato dalla malattia che già avanzava, in quel periodo Tiziano entrava e soprattutto usciva dal mondo sempre con maggior frequenza, trascorrendo mesi isolato nella sua casa alle pendici dell’Himalaya o negli incantevoli boschi del suo rifugio a Orsigna alternati a brevi periodi di nuovo fra le spire della così detta civiltà per presentare i suoi libri o partecipare a qualche conferenza.

Nell’introduzione al testo lo scrittore fiorentino già giganteggia, condividendo la consapevolezza di come il vivere a contatto con il silenzio e l’imperturbabile compiersi dei cicli della natura sia un modo per espandere la propria coscienza, ridare il giusto peso alle cose, conoscersi e conoscere.

Per questo dopo aver letto qualche pagina e vista la bella giornat chiudo il libro e vado con mio figlio più piccolo ai bunker sul monte Gazzo, un prato nascosto nel verde poco distante da casa mia da cui si ha una spettacolare vista del ponente genovese e dove regna sempre, immacolato, il silenzio.

Mio figlio ormai lo sa e quando andiamo mi chiede sempre: “Papà ascoltiamo insieme il silenzio?“.

Tra l’altro il silenzio in una verde collina che raggiungi solo attraverso una vecchia mulattiera è ben diverso dal silenzio di casa tua in città, dove anche alle 2 di notte uno scricchiolio o un bip di qualcosa di elettronico emerge sempre. Invece in mezzo al verde il silenzio è assoluto, avvolgente. E ti rigenera.

Almeno finché, come accaduto oggi, arriva il classico coglione col drone che fa bip bip bip bip.

E i suoi amici felici e contenti a fare casino anche se l’aggeggio non vola, fa solo bip bip bip bip come una sveglia ma non si alza da terra.

Sarà perché siamo vicini all’areoporto che non va” dice il tizio, e io vorrei essere solo un cinghiale per calpestargli il drone e poi scappare via.

Visto che panorama?” aggiunge uno.

Sì pero sbrighiamoci che son di corsa e tanto il drone non va” aggiunge un altro.

Viva Dio se ne vanno. E torna il silenzio.

La cosa mi fa venire in mente il racconto di una donna tibetana che abita in un villaggio sulle montagne, di quelli non assoggettati al progresso, senza comodità. Ora non dico si debba tornare al secolo scorso, molte diavolerie moderne ci hanno salvato, tuttavia trovo il racconto della donna molto sensato:

Nel mio villaggio quando devo prendere l’acqua mi faccio un’ora di cammino fino alla sorgente e poi la trasporto a casa. Per cucinare devo andare dietro casa, prendere la legna e accendere il fuoco. Quando dobbiamo parlare con qualcuno del villaggio vicino ci spettano due ore di cammino. Eppure abbiamo tempo per tutto, persino ce ne avanza.

Quando vado in città da mia sorella, invece,è tutto diverso. Si gira un rubinetto ed esce l’acqua. Si preme una manopola ed ecco il fuoco. Si vuol parlare con qualcuno e c’è il telefono. Eppure al villaggio c’è tempo per tutto mentre in città vanno sempre tutti di corsa e non hanno mai tempo per niente“.

E ora giù dalla mia collina, illustre sconosciuto, tu, il drone e la tua fottuta fretta.

Federico Traversa

Il libro giusto per le anime dolci e vintage che sognano un Natale soul

IO AD ALBERTO LO CHIAMO MAESTRO

Se oggi scrivo di musica, con un occhio particolare alla black music e, entrando nello specifico ancora più specifico, al reggae, il merito è di due persone in particolare, forse tre.

La prima è indiscutibilmente Bob Marley.

La forse terza è Michael Jackson.

La seconda, senza ombra di dubbio, risponde al nome di Alberto Castelli. Con i suoi programmi in radio e le accorate recensioni di incredibili dischi che profumavano di jazz, blues, reggae e soul, il vecchio mods romano mi ha spalancato le porte di un mondo magico che mi ha portato altrove.

Dopo averlo letto e ascoltato per anni, ho timidamente approcciato l’autore di questo libro 10 anni fa, dopo aver terminato la prima stesura di Bob Marley In This Life. Gli scrissi una lunga mail dove lo supplicavo di leggere il mio libercolo su Tuff Gong e, se lo riteneva meritevole, scriverne una postfazione. Non me la sentivo di approcciarmi a Marley senza il beneplacito di uno dei più profondi conoscitori italiani del profeta del reggae. E Alberto quella simbolica benedizione me la diede, sottoforma di un paio di cartelle che con gioia inserii nel libro. E fece di più, accettando di presentare il volume con me nella suggestiva Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Quello che non sapevamo, né io né Alberto, è che quella sarebbe stata l’ultima edizione di quella manifestazione in Italia, e che dall’anno successivo il Rototom si sarebbe scandalosamente trasferito in Spagna per via dei soliti impedimenti, burocratici e non solo, con cui è costretto a combattere chi cerca di organizzare qualcosa in questo paese. Ma non divaghiamo.

Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, “cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili”.

Ero emozionato ma lui mi guidò in una bella chiacchierata che iniziammo davanti a un pubblico di una quarantina di persone, ed eravamo già belli soddisfatti. Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.

Mamma mia” disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri. Bunny, vestito di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, molto meno affabile dell’ex capoccia della Island.

La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato con Bunny non fosse di quell’idea e iniziò ad andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero pazzesco e probabilmente anche ingiusto, se si considera quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo.

Ecco come andò il mio primo incontro col maestro Castelli che da allora – e da quando è nata Chinaski Edizioni, la casa editrice che cerco di dirigere con l’aspirazione di creare una piccola Trojan della letteratura musicale – sogno di pubblicare. E dopo anni il mio desiderio è stato esaudito con il libro migliore che si potesse realizzare, quello che meglio si addice alle caratteristiche di Alberto, che è uno storyteller nato, un bluesman della parola e del racconto, capace di portarci con stile in un lungo viaggio attraverso gli anni d’oro della musica black, dove il groove che suona è motore e carezza per l’anima. Un orgoglio nero che passa con nonchalance da Otis Redding a Bob Marley, da Quincy Jones a Gil Scott Heron, Da Muhammad Ali a Marvin Gaye, dal southern soul ad Amy Winehouse, dalla Motown alla Stax, da Kareem Abdul-Jabbar ad Al Green.

Capito che roba?

Questo non è solo un libro, è un pezzo fondante di storia della musica, una radio distorta e lontana, quasi magica, che vi consiglio di leggere (o sentire? Boh, ve l’ho detto, è magica) la notte, accompagnata dall’ascolto dei brani che racconta. Possibilmente amandovi alla fine di ogni capitolo. Da soli, in coppia, in gruppo, come vi aggrada.

Probabilmente se spargessimo nell’aria una playlist con una piccola parte delle canzoni citate in questo libro il tasso delle nascite aumenterebbe del 300%. E anche quello delle rivolte contro le funeste maglie del potere… dai, sto di nuovo divagando.

Davvero, questo è il libro giusto scritto dallo scrittore giusto sugli artisti giusti che hanno scritto le canzoni giuste.

Ve l’ho detto, io ad Alberto lo chiamo maestro. E Soul to Soul è la lavagna su cui ci impartisce la lezione, un sunto della mitica storia della black music e dei suoi protagonisti, un enorme jam session che passa di città in città e racconta di amori tormentati, treni perduti, flusso naturale e mistico che attraversa l’aria mentre ce ne stiamo seduti a riflettere sulla banchina del porto e un pastore della chiesa di Memphis ci assolve cantando Let’s Stay Together.

Ecco, sto ancora divagando…

Tanto quello che dovevo dire l’ho già detto. Questo libro è un blues che ti porta via. Castelli è un bluesman che ti porta via. Gli artisti raccontati in questo libro ti portano via.

Leggetelo con gioia e moderazione, possibilmente mantenendo una certa eleganza nonostante i momenti difficili.

Federico ‘Sandman’ Traversa

Il film sui Queen non mi ha convinto ma la rapsodia italiana è un’altra cosa…

“Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer non è piaciuto più di tanto. Lo so, probabilmente sono uno degli unici al mondo, ma la cosa, vi assicuro, non mi fa sentire speciale. Probabilmente non ho colto delle cose, nel caso segnalatemele, ma prima lasciate che argomenti sul perché la visione della pellicola mi ha lasciato un po’ così, come uno che prenota sei mesi prima per mangiare in quel determinato ristorante e, dopo la tanto agognata cena, si trova a sbadigliare insoddisfatto: “Tutto qui?”.

Partiamo da un dato di fatto: fare biopic fedeli alla storia e allo stesso tempo avvincenti, condensando il tutto in una pellicola di meno di tre ore, è difficilissimo. Quasi impossibile. Quindi la prima regola quando ci si approccia a questo genere di film è non essere integralisti e troppo legati al dettaglio. Tuttavia, quando per amore del drama un personaggio complesso e sfaccettato come Freddie Mercury viene raffigurato alla stregua di una checca egocentrica in pieno trip ormonale per due ore e mezza di film qualcosa non torna. Capitemi, io non ce l’ho con l’interpretazione al limite della nevrosi del bravo Rami Malek, che è un ottimo attore e il cui unico limite, nella circostanza, è quello di non avere quella fisicità animale che rese unico Mercury. Esattamente come non ce l’avevo con Val Kilmer, che nel 1991 interpretò magistralmente Jim Morrison nel film “The Doors”. Lo fece benissimo, davvero, peccato però che Morrison non era soltanto il bel giovane alcolizzato in fissa con la poesia che tinteggiò Stone. C’era ben altro, esattamente come nel caso di Mercury. Ecco, trovo i due film molto simili, sia nei pregi – una fotografia sontuosa, colonna sonora da paura, attori somiglianti e incisivi, una trama emozionante – che nei difetti, su tutti una definizione al limite della macchietta dei due iconici protagonisti che vanifica il resto. Paradossalmente ho trovato più aderente alla realtà “The Dirt” di Jeff Tremaine, il biopic sui Motley Crue, che probabilmente aveva meno pretese autoriali ma ha confezionato una pellicola godibile, tosta, che non scende mai nel caricaturale nonostante si spinga spesso over the limit. Se poi andiamo indietro negli anni, capolavori del genere come Walk The Line – dedicato al man in black Johnny Cash – e Ray, sulla vita di Ray Charles, mi sembrano di un’altra categoria. E sto citando i primi che mi vengono in mente. Non saranno capolavori ma a me sono piaciuti di più pure “Control” su Ian Curtis, “The Runaways” e “8Mile”, anche se definire quest’ultimo un biopic è riduttivo.

Premesso questo, bisogna ammettere che “Bohemian Rhapsody” è stata una manna dal cielo per tutto ciò che circola intorno alla musica: film, libri, riviste di settore. La nicchia, perché questo ormai siamo, di noi addetti ai lavori è tornata per un momento a sentirsi protagonista di qualcosa non soltanto circoscritta a pochi intimi. E altri film stanno arrivando. “Rocketman”, dedicato a Elton John, è vicinissimo all’uscita e si vocifera si stia per girare un biopic pure su sua Maestà David Bowie. Anche il moribondissimo mondo dei libri musicali ha fatto felice il proprio defibrillatore, con i librai – solitamente lontani dai titoli musicali come i vampiri dall’aglio – un po’ più aperti verso il genere. E pure gli scrittori. Infatti in Chinaski è arrivato Antonio Pellegrini a proporci un gran bel titolo che esce il prossimo 15 maggio: “Italian Rhapsody – L’avventura dei Queen in Italia”. Il libro giusto al momento giusto. Di cosa parla? Dello straordinario rapporto di amore reciproco tra i Queen e l’Italia. Un legame nato nel 1984, l’anno d’oro della band nel nostro paese, con le due esibizioni di “Radio Ga Ga” al Festival di Sanremo e i meravigliosi concerti milanesi del 14 e 15 settembre. Il volume di Antonio riporta aneddoti, curiosità, interviste, testimonianze inedite e foto rare o mai pubblicate. Arricchiscono il lavoro una preziosa raccolta di articoli di leggendarie riviste musicali italiane nonché una sezione dedicata ai progetti portati avanti da Brian May e Roger Taylor, i loro live in Italia, la nascita della sigla Queen+ che li vede, negli anni 2000, prima con lo storico cantante rock blues Paul Rodgers e poi con il giovane Adam Lambert.

Realizzato con il pieno supporto e la collaborazione di QueenItalia, la community italiana dei fan dei Queen, che ha fornito prezioso materiale,“Italian Rhapsody” è una testimonianza lucida e completa per conoscere approfonditamente uno spaccato di storia legata al nostro paese di una delle band più iconiche della storia del rock.

Una rapsodia italiana che mi ha colpito decisamente più del film.

E di questo umilmente chiedo venia…

Federico Traversa

CANNAPLASTICA E NON SOLO: LA RIVOLUZIONE GREEN ARRIVA A TORINO

Non facciamo in tempo a scongiurare una disgrazia che ne incombe un’altra. Tempi duri nell’Italietta targata 2-0-1-9. Mentre con un colpo di coda rispettabile e apprezzato il Sindaco di Torino e il Presidente della Regione Piemonte impediscono all’editore fascistello a caccia di notorietà di esporre al Salone del Libro, ecco il Ministro degli Interni focalizzare il suo odio sulla canapa light, i grow shop e tutto l’indotto legato alla cannabis legale. Al solito lui, da immenso statista, va in controtendenza anche rispetto al suo sodale Trump che, a dispetto di qualche slogan pre elettorale, a toccare un mercato così florido non ci pensa nemmeno. Eh sì, perché i reazionari Stati Uniti, su questo argomento, sono anni luce avanti a noi: l’hanno legalizzata da qualche tempo, e non solo in versione light, con più di un beneficio: vari Stati fatturano tantissimi soldi grazie alle tasse e, udite udite, il consumo di cannabis fra i giovani compresi fra i 12 e i 17 anni è sceso dello 0,42%.

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Fascisti al Salone del Libro? Business is business

Allora amici, capisco l’indignazione, capisco che in un momento storico così ricolmo di ignoranza si abbia voglia di ribellarsi e scendere in piazza. Sono d’accordo, ci mancherebbe. Come diceva Don Gallo l’essere antifascisti non è un optional! Rispetto quindi Zerocalcare che ha scelto di non presentarsi al Salone del libro così come rispetto la Murgia che invece ha scelto di esserci. Sento il dovere, tuttavia, per chiarezza e amore della verità, di spiegare ai non addetti ai lavori (gli addetti ai lavori anche se fanno finta di niente certe cose le sanno fin troppo bene) che quello che sta succedendo a Torino con la questione della casa editrice Altaforte sfiora il paradossale. E lo dico con cognizione di causa, visto che con Chinaski Edizioni, la casa editrice che dirigo da 15 anni,ci siamo fatti 8 Saloni di Torino di fila (non ci andiamo più per scelta dal 2013), più la Fiera del Libro di Roma e un sacco di altre manifestazioni del genere. Ebbene, in questi contesti le case editrici di estrema destra, per non dire fasciste, ci sono sempre state e nessuno ha mai proferito mezza parola. Eppure non esponevano dentro una grotta ma in mezzo agli altri. Ne ricordo una che faceva quasi apologia del fascismo; perdonatemi ma ho rimosso il nome e non ho voglia di sforzare la memoria per così poco.

Quindi, siccome non credo di averla vista solo io, perche se ne parla solo quest’anno? Amici editori e scrittori che ora vi stracciate le vesti non credo ve ne siate accorti solo ora. O invece sì?

La verità è che il problema abita da un’altra parte, e cioè nella grassa ignoranza in cui annaspa questa nostra povera Italia targata 2019, una polveriera in cui si combatte a forza di urla, spintoni e slogan da stadio. Un ambiente malsano e putrido dove il virus del fascismo può proliferare indisturbato.

Ma l’editore che si riempie la bocca dicendosi orgogliosamente fascista non è nato oggi, era lì anche ieri. Ha solo pubblicato un libro-intervista su quella sottospecie di politico che si atteggia a ducetto. Tutto qui. E parliamo di gente che su odio, algoritmi e ‘purché se ne parli’ ha costruito la propria fortezza.

Ma, e anche qui voglio essere chiaro, a quelli del Salone di ciò che pubblichi importa meno di zero. Agli organizzatori della tua proposta letteraria non frega niente, basta che paghi lo stand puoi far entrare tutti i libri che ti pare. Non c’è selezione all’ingresso come in discoteca e puoi entrare senza cravatta. Si tratta solo e unicamente di una manifestazione commerciale, un grande business per la città di Torino, la Regione Piemonte e qualche editore abbastanza grosso da… mi fermo qui.

E per tutti gli altri? Salvo rare eccezioni un mezzo bagno di sangue economico ma una bella vetrina e un ottimo modo per ampliare i propri contatti. Fine. L’idealismo, la poesia, i valori, andateveli a cercare pure da un’altra parte.

Quindi, devo constatare con tristezza, che si sta facendo tanto rumore per una cosa che esiste da anni all’interno del cuore di una manifestazione che non ha più cuore di un centro commerciale.

Comunque, visti i tempi, è bene protestare e ricordare ai ragazzi che essere fascisti è un insulto alla propria intelligenza. Però occhio che ciò che si demonizza troppo poi agli occhi dei giovani diventa affascinante. Che gran casino.

Ah, e comunque noi al Salone non ci andiamo neanche quest’anno…

Ciao guagliù

Federico Traversa

In libreria nuova edizione di “Boom – Viaggio nella Meditazione Trascendentale” di Federico Traversa!

Fra Beatles, David Lynch, fisica quantistica e mantra segreti un viaggio per comprendere cos’è la Meditazione Trascendentale, una delle pratiche più discusse e affascinanti dell’ultimo secolo. 
Con un intervento esclusivo di David Lynch.