di Federico Traversa
Tutto iniziò con Beverly Hills 90210,
che sarà stato stupido, vuoto e patinato quanto volete ma ha innegabilmente
aperto le porte a un nuovo genere televisivo che ci torturerà negli anni a
venire: il teen drama – per dirlo in modo figo, all’americana – o più
semplicemente le serie televisive a puntate per ragazzi. Costruita sul modello
delle telenovela sudamericane per casalinghe annoiate, moderatamente aperta
nell’ affrontare tematiche attuali, seppur trattate con manate di vasellina e
politically correct, BH 90210 ha segnato un paio di generazioni agli inizi
degli anni novanta, compreso quella del sottoscritto. Classe 1975, vidi la
prima puntata che non avevo nemmeno 16 anni e mi fece del male, visto che da
allora tarai il pivello che ero sulle fattezze del bello e scorbutico Dylan
McKay, una specie di James Dean ricco e problematico portato sullo schermo dal
bravo e sfortunato attore Luke Perry. Capitemi, allora si andava in discoteca
di sabato pomeriggio e la cosa più eversiva che si faceva era incollare il
citofono del vicino calabrese del primo piano, un ex carabiniere in pensione,
che ci bucava il pallone quando finiva sul suo terrazzo. Ero conteso da due
ragazze in quel periodo, dolci e bellissime entrambe. Una era scura, l’altra
bionda. Proprio come Dylan nel telefilm. E proprio come lui scelsi la bionda.
Lo so, lo so, da rabbrividire quanto mi facevo coglionare dalla tv.
A staccarmi di dosso un po’ di
patinatura, ci pensarono il cinema, i libri e la musica. A partire da “The
Doors” di Oliver Stone, che mi presentò Jim Morrison. Il Re Lucertola
spazzò via McKay in meno di un’estate e diventò la mia fonte d’ispirazione per
la vita. Grazie a Jim, e alla sua scapestrata biografia ‘Nessuno Uscirà Vivo di
qui’, scoprii l’amore per la poesia, la letteratura, Rimbaud, Baudelaire,
Castaneda, la beat generation, e decisi che nella vita avrei fatto lo
scrittore. E l’ho fatto, ragazzi. Ok, non sono diventato Bukowski ma ci campo
con un certo stile.
Impossibile non citare poi, nella mia
formazione artistoide, Twin Peaks, innovativo capolavoro di David Lynch, una
serie capace di segnare per sempre un’epoca.
Alla voce disimpegno, invece, come
dimenticare il Karaoke e quegli anni in cui folletto Fiorello fece credere agli
italiani che anche senza il mandolino restavamo un popolo di cantanti. Oppure
Non é la Rai, che invece ci ricordò che siamo sempre stati, e sempre saremo, un
popolo di eterni segaioli. Già che si fa riferimento a Onan, meritano una
citazione i culi al vento delle 18e30, quando su Italia 1 andava in onda
Baywatch di Pamelona Anderson. E anche gli agghiaccianti balletti sexi di Spice
Girls et simili.
Stasera la mia mente torna a quelle
mattinate in giro, a saltare scuola appena possibile per gli scioperi o
l’occupazione, ai bombardamenti nato sul’Iraq, alla guerra che per la
prima volta arrivava in diretta televisiva. Craxi, tangentopoli, l’arrivo di
Berlusconi, il Milan di Capello che vinceva molto ma stava sulle palle a tutti.
Le domeniche allo stadio, noi sempre in uniforme: bomber, dr Martens, jeans
strappati e sciarpa d’ordinanza. La camicia, il maglioncino a righe e il
montgomery solo per entrare in discoteca.
E ancora: i film horror in vks affittati
il sabato pomeriggio in videoteca, le playlist, che allora chiamavamo
compilation, che facevi alla tipa che ti piaceva e dove non potevano mancare
canzoni come Waves of Change degli Scorpions, Don’t Cry dei Guns e Home Sweet
Home dei Motley Crue. Ma anche Vivere o Senza Parole del Blasco. E sto citando
proprio le più ovvie. Senza scordare il wrestling commentato da Dan Peterson,
le puntate di Willy Superfigo di Bel Air, di Casa Keaton, dei Robinson, fino ai
concerti bubblegum, ma indimenticabili, di Michael Jackson. Cosby e Jackson: il
papà buono che tutti avremmo voluto avere e lo zio strambo e pieno di talento
che amava i bambini. Avessimo saputo cosa c’era dietro…
Poi arrivarono i Nirvana, e Kurt Cobain
spazzò via la paura di noi ragazzi di mostrarci per quello che eravamo di
fronte a un mondo che stava cambiando. All’improvviso far vedere le proprie
debolezze, la propria rabbia e la propria paura non era più oggetto di vergogna
come per il macho anni ottanta ma qualcosa che si poteva, anzi doveva fare.
Intanto tutto si stava contaminando,
tutto cambiava, gli steccati fra i generi crollarono come castelli di carte
vecchie. Il fenomeno dei rave invase le nostre notti, a livello mainstream si
affermarono proposte musicali inusuali quali Prodigy, Moby, Fatboy Slim o i Chemical
Brothers. Il rock inglese invece si vestiva di vintage e, ribatezzatosi brit
pop, proponeva moderne versioni di Beatles e Rolling Stones con gruppi tipo
Oasis, Blur, Verve, Stone Roses e così via.
Lontano dal mondo dei rave per una
radicata idiosincrasia verso l’insopportabile cassa dritta e mai stato troppo
affascinato dai Fab Four – figurarsi i loro cloni – trovai rifugio nella
mescola che odorava di contaminazione, nei libri e nei film: Manu Chao, il
movimento delle Posse, il gansta rap di Pac e Biggie, i reportage di viaggio di
Terzani, The Beach di Alex Garland, vera bibbia per chi in quegli anni virava
verso l’Asia, lo schiaffo di Palhaniuk in Fight Club, la carezza pop di Nick
Horby con Alta Fedeltà, la siringata di poetico disgusto del Welsh di
Trainspotting e Colla, o le botte di John King col suo Fedeli Alla Tribù.
Ovviamente tutto Bukowski, e poi John e Dan Fante. Il Brizzi imbastardito di
Bastogne e Tre Ragazzi Immaginari. Andrea De Carlo. Gli incubi up-class di
Brett Easton Ellis e quelli profumati di minimalismo yuppie di Jay McInerney. I
diari di basket del grande Jim Carroll, le illuminazioni tornate attuali di
Hesse in Siddharta. E come dimenticare il caschetto scazzato e i pantaloni over
size di Natalie Imbruglia, i Red Hot Chili Peppers di Under the Bridge, i film
di Gus Van Sant, i surfisti fuorilegge di Point Break, e poi Intervista col
Vampiro, i dialoghi surreali di Pulp Fiction, la scena underground italiana che
diventa mainstream: Subsonica, Afterhours, Africa Unite, Prozac + (che la
terra ti sia lieve Elisabetta Imelio), Esa, Bluvertigo, Sottotono, ecc. E poi
Leo di Caprio che fa Romeo recitando Shakespeare in camicia hawaiana, l’ugola
delicata di Jeff Buckley, quella consapevole di Ben Harper, oppure i video
degli Aereosmith con Alicia Silverstone e Live Tyler.
“Non puó piovere per sempre” diceva il martire Brandon Lee nel
Corvo.
“Io sono ancora vivo” rispondeva Eddie Vedder nell’iconica
Alive dei Pearl Jam.
Ma vi ricordate?
Quanto si era belli, puri, appassionati,
difettosi e fragili allora. Tanto tanto fragili. Non era neanche tutta colpa
nostra. Eravamo una generazione brutalmente schiacciata, presa in mezzo tra la
naufragata illusione che il capitalismo made in Usa ci avrebbe resi tutti
ricchi degli ottanta, e la certezza che nel nome di quella falsa
illusione ci avevano fregato persino la sedia da sotto il culo dei 2000
and more.
La storia ci ha barrato con una X,
Generazione X, come il bel libro di Douglas Copeland. E così verremo trasmessi
ai posteri.
Oggi di quello strano decennio restano
solo i nostri ricordi, frammenti confusi, raffreddati dagli anni, di un momento
che é stato veramente nostro giusto il tempo di uno sputo. Atterrato neanche
troppo distante.
Ma Cristo di un Dio se ne é valsa la pena…