“Coronavirus: viaggio fra bugie, verità e disinfettante per le mani venduto a 99,00” di Federico Traversa

Alla fine il temuto Coronavirus é arrivato massicciamente anche in Italia, con 150 casi accertati, tre decessi e cinque regioni colpite, con la Lombardia a farla da padrone a fronte dei suoi 89 casi. I nostri media hanno salutato questo Covid-19 con strilli degni di una peste seicentesca, maledetta ma anche benedetta, visto che certi ascolti i telegiornali non li fanno mica tutti i giorni. Per non parlare dei quotidiani, che negli editoriali spingono alla prudenza, alla calma, al sacro valore del buonsenso e poi se ne escono con titoli quali “Italia Infetta”, “Prove tecniche di strage”, “Contagi e morte il morbo è tra noi”.

Ma in questa tempesta di notizie, allarmismi, inviti alla prudenza o previsioni di apocalisse, qual’è la verità? Ci sono notizie certe da cui cominciare un’analisi seria? Le informazioni attendibili sono poche, é vero, ma bisogna necessariamente partire da quelle per prendere le misure a questa inattesa emergenza. Rewind quindi.

Tutto comincia dalla città di Wuhan, nel Hubei, un’area della Cina dove dalla fine di dicembre le persone iniziano ad ammalarsi di un nuova malattia della famiglia dei Coronavirus molto simile alla Sars, seppur meno mortale ma più virulenta. Il governo cinese all’inizio prende sottogamba gli avvisi e le preoccupazioni dei medici presenti sul posto e – un po’ per paura di ripercussioni economiche, un po’ per non scalfire il senso di efficienza che vuol mostrare al mondo occidentale – ritarda gli interventi. E quando ci si accorge che il virus è diventato pandemico ormai è troppo tardi, la porta della stalla si chiude ma i cavalli sono già scappati.

Nel mondo globalizzato di oggi, dove in poche ore giri il mondo e in cui la Cina di quel mondo è il principale fornitore, il virus inizia le sue sgradite visite e arriva anche da noi, nonostante le notizie megafonate del governo si vantino del fatto che l’Italia sia il primo paese ad aver chiuso i voli diretti con la Cina. Che è la solita presa in giro nel classico nostro stile perché se io mi trovo in Cina e voglio venire in Italia non mi ferma certo un blocco simile. Mai sentito parlare della parola scalo? Mi togli, faccio per dire, il Roma-Pechino? E io prendo il Pechino-Francoforte e poi il Francoforte-Roma. Problema risolto e probabilmente spendo pure gli stessi soldi.

La cosa strana, semmai, è che in tutti gli altri paesi europei ci sono stati pochi casi, tutti importati, e l’emergenza si è risolta senza focolai. In Germania sono fermi a sedici casi da settimane, in Francia molti meno, in Spagna 2, qualcuno nel nord Europa, fine. Perché da noi siamo a 150, numero in continuo aumento? Cosa abbiamo di diverso dagli altri paesi europei? Si tratta solo di sfortuna o c’è dell’altro? E ancora: quanto è veramente pericoloso questo coronavirus?

Ieri sono andato in farmacia per comprare un ciuccio a mio figlio Leonardo – quella bestiola il suo lo ha rosicchiato fino a distruggerlo – e sentivo il farmacista dire che in tutta la città non si trovavano più mascherine e disinfettante per le mani. Quest’ultimo va via su amazon a 99,00 alla confezione! E io abito a Genova dove, per ora, pare non esserci ancora alcun caso.

È ragionevole tutto questo allarmismo? E a chi giova? Lungi da me fare il complottista, sapete quanto sono distante dall’informazione modello spystory, ma è innegabile che in ogni crisi, di qualsiasi tipo essa sia, seguendo la direzione dei soldi si capiscono molte cose. Quindi nei prossimi mesi suggerisco di tenere d’occhio la borsa.

Divagazioni a parte, torniamo alla domanda che più interessa noi comuni mortali: è ragionevole tutto questo allarmismo?

Anche qui le opinioni divergono. C’è chi dice abbia una mortalità di poco superiore a un’influenza, chi sostiene invece che su vasta scala, cioè diffondendosi a macchia d’olio lungo tutto il globo, potrebbe rivelarsi una seconda spagnola.

A chi credere? Non ci resta che affidarci nuovamente ai freddi numeri che parlano di una mortalità del 2,5% circa in Cina e dello 0,9% nel resto del mondo. Di quel 2,5% circa la metà pare fossero pazienti con cronici problemi di salute. Infine, considerando le tante persone che probabilmente hanno sviluppato il virus in maniera blanda e ne sono guarite senza essere state censite, è ipotizzabile che il dato scenda ancora, presumibilmente fra lo 0,5% e l’1%. Vuol dire che su 100/150 persone che si ammalano, una muore.

Poco? Tanto? Dipende se sei te o un tuo famigliare la persona deceduta.

Parliamo comunque di una percentuale avvicinabile a una gran brutta polmonite, non certo a un’influenza, la cui mortalità è di circa 1 su 2000/2500 casi. Ma non è nemmeno Ebola, che ammazza una persona su 2.

Alla fine il buonsenso, la collaborazione, la buona medicina e un po’ di sano fatalismo dovrebbero bastare a fronteggiare questa emergenza.

Grazie al buonsenso, ad esempio, eviteremo luoghi troppo affollati se non strettamente necessario, rispetteremo le normali norme igieniche, ci laveremo bene le mani e, ricordatelo questo, puliremo pure i nostri amati telefonini. Perché è inutile che immergiate le mani nella candeggina se poi andate a letto con il cellulare e il tablet che avete appoggiato in giro tutto il giorno.

Altra azione di buonsenso è evitare di andare al lavoro se si è ammalati, o mandare i vostri figli a scuola se non stanno bene. Roba elementare ma tant’è…

Se avremo fortuna, complice l’aiuto della primavera e dell’estate, il coronavirus sparirà presto.

In caso contrario affronteremo questa brutta polmonite, consci che la maggior parte delle persone guariscono, sono già oltre 21mila coloro che si sono completamente negativizzati. E se invece saremo tra quella bassa percentuale che non ce la fa, alzeremo le braccia la cielo, pronti a lasciare questo mondo con eleganza, che tanto prima o poi tocca a tutti. Certo, meglio poi…

Ora smettete di toccare ferro e seguitemi in un’ultima riflessione. Non c’entra molto col Coronavirus o forse sì. Ma non sarà che questo mondo che abbiamo costruito c’entri qualcosa? Un mondo opprimente, fatto di inquinamento, stress, alienazione urbana, animali martoriati per confezionare cibo spazzatura, ambienti malsani che portano le percentuali di tumori al massimo storico, il denaro come valore unico e insindacabile a cui piegare tutto e tutti.

Ma non sarà che tutta l’immondizia che mangiamo e respiriamo e tutte le medicine che ingurgitiamo senza averne veramente bisogno hanno reso noi più deboli e i virus più forti? O che magari quelle che noi chiamiamo malattie in realtà sono la cura mandata dalla natura per liberarsi di quel infausto virus chiamato uomo?

Mai come oggi ricordo la profezia di Tiziano Terzani che, in un’intervista pubblicata postuma nel libro “Il pensiero irriducibile”, diceva:

«O noi ci rendiamo conto che è necessario mutare, oppure qualcosa da fuori ci imporrà questa scelta: probabilmente la natura, violentata e saccheggiata, e purtroppo non ascoltata, o qualcos’altro».

Il Coronavirus, con la sua bassa letalità probabilmente è il primo avviso che ci è stato recapitato.

Se non lo recepiamo il prossimo potrebbe essere di ben altro tenore…

Elogio a Tiziano Terzani, alla natura, alla lentezza, al silenzio… e che un fulmine colpisca quel drone!

Inizio questo anno come al solito, e cioé cominciando un libro nuovo. E siccome é un periodo complicato opto per un peso massimo, cioé uno dei libri dei miei autori di riferimento che non ho ancora letto. Sto parlando di scrittori che amo al punto da centellinare la lettura delle varie opere in modo che la loro compagnia duri quanto più possibile. Come nel caso di Tiziano Terzani e delle sue “Lettere contro la Guerra” edito da Longanesi nel 2002. Il libro raccoglie una serie di articoli che Terzani scrisse e pubblicò sul Corriere della Sera a seguito dell’attentato dell’undici settembre. Provato dalla malattia che già avanzava, in quel periodo Tiziano entrava e soprattutto usciva dal mondo sempre con maggior frequenza, trascorrendo mesi isolato nella sua casa alle pendici dell’Himalaya o negli incantevoli boschi del suo rifugio a Orsigna alternati a brevi periodi di nuovo fra le spire della così detta civiltà per presentare i suoi libri o partecipare a qualche conferenza.

Nell’introduzione al testo lo scrittore fiorentino già giganteggia, condividendo la consapevolezza di come il vivere a contatto con il silenzio e l’imperturbabile compiersi dei cicli della natura sia un modo per espandere la propria coscienza, ridare il giusto peso alle cose, conoscersi e conoscere.

Per questo dopo aver letto qualche pagina e vista la bella giornat chiudo il libro e vado con mio figlio più piccolo ai bunker sul monte Gazzo, un prato nascosto nel verde poco distante da casa mia da cui si ha una spettacolare vista del ponente genovese e dove regna sempre, immacolato, il silenzio.

Mio figlio ormai lo sa e quando andiamo mi chiede sempre: “Papà ascoltiamo insieme il silenzio?“.

Tra l’altro il silenzio in una verde collina che raggiungi solo attraverso una vecchia mulattiera è ben diverso dal silenzio di casa tua in città, dove anche alle 2 di notte uno scricchiolio o un bip di qualcosa di elettronico emerge sempre. Invece in mezzo al verde il silenzio è assoluto, avvolgente. E ti rigenera.

Almeno finché, come accaduto oggi, arriva il classico coglione col drone che fa bip bip bip bip.

E i suoi amici felici e contenti a fare casino anche se l’aggeggio non vola, fa solo bip bip bip bip come una sveglia ma non si alza da terra.

Sarà perché siamo vicini all’areoporto che non va” dice il tizio, e io vorrei essere solo un cinghiale per calpestargli il drone e poi scappare via.

Visto che panorama?” aggiunge uno.

Sì pero sbrighiamoci che son di corsa e tanto il drone non va” aggiunge un altro.

Viva Dio se ne vanno. E torna il silenzio.

La cosa mi fa venire in mente il racconto di una donna tibetana che abita in un villaggio sulle montagne, di quelli non assoggettati al progresso, senza comodità. Ora non dico si debba tornare al secolo scorso, molte diavolerie moderne ci hanno salvato, tuttavia trovo il racconto della donna molto sensato:

Nel mio villaggio quando devo prendere l’acqua mi faccio un’ora di cammino fino alla sorgente e poi la trasporto a casa. Per cucinare devo andare dietro casa, prendere la legna e accendere il fuoco. Quando dobbiamo parlare con qualcuno del villaggio vicino ci spettano due ore di cammino. Eppure abbiamo tempo per tutto, persino ce ne avanza.

Quando vado in città da mia sorella, invece,è tutto diverso. Si gira un rubinetto ed esce l’acqua. Si preme una manopola ed ecco il fuoco. Si vuol parlare con qualcuno e c’è il telefono. Eppure al villaggio c’è tempo per tutto mentre in città vanno sempre tutti di corsa e non hanno mai tempo per niente“.

E ora giù dalla mia collina, illustre sconosciuto, tu, il drone e la tua fottuta fretta.

Federico Traversa

A volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te – Tre libri da leggere per vincere il ritorno al lavoro. Di Federico Traversa

Non è stata una bella estate per il sottoscritto, ci sono stati alcuni problemi da affrontare e la serenità che tanto amo, e a cui tanto bramo, ha bussato poco alla mia porta. Però, fra un’incazzatura e uno scongiuro, la stagione delle vacanze da poco terminata qualcosa di buono mi ha lasciato: il tempo di leggere. E, cosa assai rara, dei tre libri letti nel torrido mese di agosto nessuno mi ha deluso, anzi. Tutti mi hanno motivato a mille nel cercare di focalizzare meglio la mia attenzione, prendermi più tempo per vivere le cose che mi piacciono e che ritengo importanti, e accettare con serenità ciò che non posso cambiare. Più altre varie ed eventuali. Niente male, vero?

E poi c’è ancora chi dice che leggere non serva a niente.

Quindi, amici, eccomi a condividere con voi questi tre gioielli, nella speranza che possano darvi quei benefici che hanno regalato al sottoscritto.

Partiamo dal primo, che ha compiuto un vero miracolo: mi ha fatto tornare la voglia di scrivere. L’avevo persa, credo non sia un segreto, visto che a parte Rock is Dead (scritto più di due anni fa insieme ad Episch e figlio del nostro programma in radio), sono quasi cinque anni che non pubblico qualcosa di nuovo e vivo di ristampe e nuove edizioni dei libri vecchi. Fortunatamente “Un Indovino mi Disse” del grande Tiziano Terzani è riuscito a ricordarmi perché il nostro è un mestiere bellissimo. Perché scrivere è bellissimo.

Si tratta di un testo scritto con cuore e testa che esplora la contraddittoria Asia con la pazienza e la passione con cui si crea un mandala dai mille colori. Due parole sulla trama di questo strepitoso reportage di viaggio: nel 1976 un indovino cinese predice a Terzani che nel 1993 correrà il rischio di morire in un incidente aereo. Giunto alla fine del 1992, il giornalista toscano si ricorda della profezia e decide, più per gioco che per paura, di trascorrere l’intero 1993 senza mai utilizzare aerei ed elicotteri, cosa non semplice se di mestiere fai il corrispondente dall’Asia. Ottenuto da Der Spiegel, il settimanale tedesco per cui lavora, il permesso di non prendere voli per un anno, Terzani racconta il suo incredibile viaggio nel cuore dell’Oriente rispettando la profezia, e quindi muovendosi solo grazie a treni, imbarcazioni, macchine o autobus. E intanto – mentre strada facendo ci racconta magie e tragiche contraddizioni di paesi come Laos, Malesia, Birmania, Cambogia, Mongolia, Cina, Indonesia, Vietnam, eccetera, eccetera – cerca ogni sorta di indovini e astrologi a cui chiedere conferme a proposito della macabra profezia. Un libro non solo da leggere ma da vivere, possibilmente pianificando il prossimo viaggio con la consapevolezza che è sempre meglio, come diceva Terzani, essere pellegrini che turisti.

Ma ora cambiamo genere. Ve lo ricordate il “Il Grande Lebowski?” Più che un film una filosofia di vita, e infatti così viene trattato nello straordinario libro intitolato “Il Drugo e il Maestro di Zen” di Jeff Bridges e Bernie Glassman. Il primo è lo straordinario attore che interpretava lo stralunato Lebowski; buddista praticate da anni, talentuoso musicista e ricercatore spirituale, Jeff è un tipo decisamente interessante. Ma mai come Bernie, l’altro autore del libro. Ex ingegnere aerospaziale, poi maestro di zen fra i più apprezzati degli States, clown per i bambini vittime della guerra e filantropo per i senza tetto del paese, la sua visione della vita è di una semplicità e una bontà quasi disarmanti. I due, amici da una vita, passano un lungo fine settimana insieme in mezzo alla natura discutendo di zen, cinema, filosofia, amore, morte, nascita e vita, fra una citazione del Buddha e una del ‘drugo’. Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di tanto profondo e rinfrescante.

Il terzo libro, che ho riletto a distanza di venticinque anni dalla prima volta, più che insegnarmi qualcosa mi ha ricordato quello che già sapevo: non esiste il paradiso e la droga fa male. Pubblicato agli inizi degli anni settanta, “Flash – Katmandu il grande Viaggio” è un capolavoro, forse il più bel libro di viaggio tout court che abbia letto. Se qualcuno ne conosce altri ugualmente avvincenti è pregato di comunicarmelo all’istante. Flash è un libro che leggi a diciassette anni e poi inizi a viaggiare e a drogarti. Poi lo rileggi a 30 e, sei furbo, smetti e torni a casa.

Alla mia età invece te lo godi e basta. Ti godi il racconto di un oriente mitico che non esiste più. Ti godi l’esodo dei giovani hippy che sognavano un nuovo mondo possibile e che il potere ha annientato con speculazioni facili e droga a buon mercato. Ti godi l’innocenza di un mondo che si rallegrava nel progresso ancora ignaro che poi sarebbe arrivato il conto.

Anche qui due parole sulla trama: siamo nel 1969 e il francese Charles Duchassois, allora quasi trentenne, è un tipo sgamato che decide di viaggiare libero in cerca d’avventura ed esperienze forti. Il suo pellegrinaggio lo porta sulle montagne del Libano, con il traffico d’armi e la raccolta dell’hashish, salvo poi condurlo a Istanbul, dove scopre che fumare lo chilon è un’esperienza parecchio divertente; quindi va a Bagdad e poi in India, dove sperimenta l’oppio e altre esotiche stranezze locali, prima che una storia d’amore sbagliata lo conduca nell’inferno di Katmandu dove allora la droga, tutta la droga, è praticamente libera e accessibile a tutti. Da qui la disperata discesa in un inferno fatto di morfina, metedrina, e ogni genere di porcheria. Un degrado inarrestabile che spinge l’autore a scegliere di lasciarsi morire di droga e stenti sulle montagne nepalesi.

Non accadrà, verrà salvato e rimpatriato in Francia, e con il suo arrivo l’occidente per la prima volta vedrà come si riduce un uomo quando diventa un vero e proprio junkie.

Eccole le mie tre chicche, i miei libri da leggere per vincere il ritorno al lavoro e, motivati a mille, magari cambiarlo se non vi soddisfa, oppure salutare tutti, prendere le proprie cose e andare in Asia in treno. O, se siete tipi più rudi, volare fino a Katmandu in cerca di emozioni forti, ma con giudizio sennò vi rimpatriano completamente pazzi che pesate trenta chili.

Personalmente preferisco un bel fine settimana lungo, nella natura, a discutere con qualche amico saggio di quanto zen sia la frase: “A volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te”. D’altronde non sono mai stato questo grande viaggiatore… e comunque il Buddha che conservo sulla mensola, credetemi, dà davvero un tono all’ambiente.