ROBERT JOHNSON

LA MALEDIZIONE DEL BLUES

Una volta, quando ancora ero un aspirante scrittore di nemmeno vent’anni, andai a vedere la presentazione di un romanzo di cui si diceva un gran bene. L’autore era stato per anni un senzatetto alcolizzato, solo la voglia di scrivere ancora un’altra poesia e l’aiuto di un’amica che si era innamorata dei suoi scritti lo aveva salvato dal commettere suicidio. Pensate che scrisse la prima bozza del libro sul retro degli scontrini usati che raccoglieva da terra mentre mendicava. La prosa di quello scrittore sui cinquant’anni, che per almeno trenta aveva fatto a botte con la vita, era potente e suggestiva. E quando uno degli spettatori gli chiese a chi si ispirasse per scrivere, se più ad Hemingway o a Bukowski, lui solo rispose: “Al blues, io mi ispiro al blues. C’è solo un linguaggio per un cuore che sanguina e un’anima in cerca di redenzione e quel linguaggio è il blues. E il blues può essere suonato, cantato ma anche dipinto oppure scritto”.

E poi, a sorpresa, si mise a intonare una litania struggente, solo voce e nocche che battevano sul tavolo a cui era appoggiato.

Fu un momento straordinario perché quel giorno capii veramente e definitivamente perché il blues è il BLUES.

Nelle settimane successive ascoltai e mi documentai, scoprendo che i vecchi bluesman del Mississippi erano più sinistri e maledetti delle moderne rockstar che allora tanto amavo. Piantagioni di cotone, donne disinibite, alcol e maledizioni. Wow. C’era da uscirne pazzi. Poi qualcuno mi parlò di Robert Johnson e della sua storia, e per la prima volta ebbi davvero paura.

Avete presente il detto: “Attento a cosa desideri perché potresti ottenerlo?

Una vicenda che faceva tremare il mio cuore adolescente quasi quanto il film Angel Heart che, tra l’altro, alla storia di Johnson credo debba parecchio, perlomeno in termini di immaginario e sceneggiatura.

E comunque…

Presumibilmente Robert Johnson nasce l’8 maggio 1911 a Hazlehurst, nel Mississippi, undicesimo figlio di Julia Major Doods. I dieci figli che lo avevano preceduto erano nati dal matrimonio della donna con Charles Doods, tutti ma non Robert. Lui era figlio illegittimo, nato dalla relazione fra Julia e Noah Johnson, un lavoratore della vicina piantagione.

Un’infanzia nomade e povera la sua, ai limiti della miseria, e un’adolescenza segnata dagli immancabili scontri col patrigno e da nessuna istruzione scolastica. E poi la musica, i primi rudimenti per suonare inizialmente l’armonica a bocca, e dopo la chitarra insegnategli dal fratello Charles Leroy, a far nascere una passione che lo attanaglia per non abbandonarlo mai più. Eppure, nonostante tanto si impegni, non è che Robert appaia un musicista così dotato; laggiù, nel Delta del Mississippi, ce ne sono tanti migliori di lui.

A 18 anni il nostro già si sposa ma la moglie sedicenne, Virginia Travis, muore nel dare alla luce loro figlio. Distrutto dal dolore, Johnson inizia a vagare lungo il Mississippi bevendo, fumando, andando a donne ed esorcizzando il proprio dolore in struggenti blues alla chitarra.

Nel 1931 il musicista tenta di ricostruirsi una vita normale e sposa Calletta Craft, una donna da poco conosciuta con cui si trasferisce nel villaggio di Copiah County. Ma la crescente passione per la musica e un tormento interiore, che si spegne solo quando imbraccia la chitarra in un bar e sgolandosi del buon whisky intona un blues, lo riporta sulla strada, e il matrimonio ben presto naufraga.

Fra caldo torrido, ventilatori accesi, chitarre pizzicate, ugole corrose dall’alcol e donne prosperose, Robert continua a suonare.

Fra uomini tormentati, vecchi giradischi, binari dissestati, crocevia per mille diversi inferni e il melmoso Mississippi che scorre lento, anche il Diavolo lo ascolta.

Narra la leggenda che a Robert, chitarrista non propriamente eccelso, una notte capiti qualcosa di davvero strano. Voci dell’epoca parlano di un incontro fra il giovane bluesman e un uomo sinistro interamente vestito di nero. Un incontro avvenuto allo scoccare della mezzanotte a un crocevia desolato, dove l’uomo in nero avrebbe concesso al giovane un ineguagliabile talento chitarristico in cambio della sua anima. D’altronde Mr Belzebù ha sempre amato il tormento e l’estasi, quindi come potrebbe non amare il blues?

E in questa ormai mitica leggenda probabilmente qualcosa di vero c’è. Johnson, infatti, nel suo girovagare, effettivamente incontra un tipo davvero inquietante e misterioso. Si tratta di un bluesman di nome Ike Zinneman. È lui a insegnargli, forse, quella tecnica chitarristica incredibile che diventerà il suo marchio di fabbrica. Quella che molti anni dopo, quando Brian Jones farà ascoltare a un giovane Keith Richards un’incisione di Johnson, convincerà Keith che a suonare quell’incredibile musica siano due chitarristi e non uno solo.

E questo Ike misterioso lo è sul serio, ma così tanto che non ci sarebbe da stupirsi se fosse davvero un emissario di Belzebù in persona: nessun dato anagrafico, nessuna fotografia, nessuna notizia certa. Di lui si sa solo una cosa: adora suonare nei cimiteri la notte, tra lapidi gelide come la morte. E quando lo fa, spesso si porta dietro Robert.

Sia quel che sia, il goffo Robert Johnson diventa un chitarrista incredibile. La sua stupefacente tecnica chitarristica è ancora oggi considerata una delle massime espressioni del Delta blues, senza dimenticare i suoi testi oscuri, che spesso parlano di spettri, demoni e alcune volte si riferiscono direttamente al suo presunto patto col Diavolo. Una leggenda che Johnson ama e probabilmente alimenta lui stesso. Una leggenda a cui contribuiscono i racconti dei vari musicisti che hanno a che fare con lui, tutti concordi nell’affermare che Robert fosse un chitarrista abbastanza mediocre all’inizio. Poi morì sua moglie, lui sparì per un anno e al suo ritorno era un autentico fenomeno.

Altri aneddoti raccontano che il bluesman fosse capace di riprodurre nota per nota qualsiasi melodia ascoltasse, per radio come in un locale affollato, e senza porvi la benché minima attenzione.

E se la sua vita è stata una lunga notte misteriosa e spettrale, la morte, avvenuta a soli 27 anni, è anche peggio.

È la sera del 13 agosto del 1938 e Johnson, insieme ai musicisti Sonny Boy Williamson II e David Honeyboy Edwards, si sta esibendo al Three Forks, un locale a 15 miglia da Greenwood nel quale da qualche settimana i tre suonano ogni sabato sera.

Robert, al solito, non ha perso tempo, seducendo la moglie del proprietario del locale. All’uomo non importa, basta che il leggendario bluesman, perché ormai il suo nome è sulla bocca di tutto il Mississippi e anche oltre, suoni come si deve e tenga un profilo basso che non alimenti le chiacchiere. Ma quella sera, complici l’alcol e il caldo torrido, Johnson e la signora iniziano a lasciarsi andare ad atteggiamenti davvero troppo espliciti. Quasi imbarazzanti, come racconterà un testimone.

Il gestore del locale non può tollerare un affronto così spudorato e, forse, decide di vendicarsi, vendicarsi alla maniera del Sud.

Durante una pausa del concerto a Robert viene passata una bottiglia da mezza pinta di whisky già stappata. Sonny e David lo mettono in guardia: non è prudente bere da una bottiglia senza tappo. In quegli anni non è raro che i musicisti vengano drogati e derubati dei propri strumenti e dell’incasso della serata, meglio non correre rischi. Ma Robert, già ubriaco, manda tutti al diavolo e se la sgola in fretta e furia.

Poco dopo inizia a sentirsi male, la brezza alcolica lascia spazio allo stordimento e alla confusione tipica dell’avvelenamento. Trasportato all’ospedale, muore dopo tre giorni d’intensa agonia, senza che qualche medico trovi il tempo di fornirgli le cure necessarie, o perlomeno affievolirne i tormenti.

Ci lascia 29 storiche registrazioni, effettuate tra il 23 novembre 1936 e il 20 giugno 1937, 29 registrazioni che costituiranno una base imprescindibile per intere generazioni di musicisti a venire, da Muddy Waters a Bob Dylan, passando per Rolling Stones, Cream, Allman Brothers, Eric Clapton, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, e chiunque vi venga in mente fra le leggende del rock dalla sua nascita ad oggi.

E ci lascia pure quella symphaty for the devil, come dicevano gli Stones, che diventerà parte integrante dell’immaginario rock, fra musicisti compiaciuti, lotte dei benpensanti, miti, leggende, tragedie, commedie o semplici cliché.

Probabilmente il mondo del rock sarebbe stato ben altra cosa se quella notte, al crocevia per nessuna parte, un giovane nero poco dotato non avesse sacrificato la propria anima al demone della musica.

O almeno, è bello crederlo…

Tratto da Rock is Dead – Il libro Nero sui Misteri della Musica

(In libreria e in tutti gli store online)

La storia ci ha barrato con una X, Generazione X: cari anni 90 vi scrivo…

di Federico Traversa

Tutto iniziò con Beverly Hills 90210, che sarà stato stupido, vuoto e patinato quanto volete ma ha innegabilmente aperto le porte a un nuovo genere televisivo che ci torturerà negli anni a venire: il teen drama – per dirlo in modo figo, all’americana – o più semplicemente le serie televisive a puntate per ragazzi. Costruita sul modello delle telenovela sudamericane per casalinghe annoiate, moderatamente aperta nell’ affrontare tematiche attuali, seppur trattate con manate di vasellina e politically correct, BH 90210 ha segnato un paio di generazioni agli inizi degli anni novanta, compreso quella del sottoscritto. Classe 1975, vidi la prima puntata che non avevo nemmeno 16 anni e mi fece del male, visto che da allora tarai il pivello che ero sulle fattezze del bello e scorbutico Dylan McKay, una specie di James Dean ricco e problematico portato sullo schermo dal bravo e sfortunato attore Luke Perry. Capitemi, allora si andava in discoteca di sabato pomeriggio e la cosa più eversiva che si faceva era incollare il citofono del vicino calabrese del primo piano, un ex carabiniere in pensione, che ci bucava il pallone quando finiva sul suo terrazzo. Ero conteso da due ragazze in quel periodo, dolci e bellissime entrambe. Una era scura, l’altra bionda. Proprio come Dylan nel telefilm. E proprio come lui scelsi la bionda. Lo so, lo so, da rabbrividire quanto mi facevo coglionare dalla tv. 

A staccarmi di dosso un po’ di patinatura, ci pensarono il cinema, i libri e la musica. A partire da “The Doors” di Oliver Stone, che mi presentò  Jim Morrison.  Il Re Lucertola spazzò via McKay in meno di un’estate e diventò la mia fonte d’ispirazione per la vita. Grazie a Jim, e alla sua scapestrata biografia ‘Nessuno Uscirà Vivo di qui’, scoprii l’amore per la poesia, la letteratura, Rimbaud, Baudelaire, Castaneda, la beat generation, e decisi che nella vita avrei fatto lo scrittore. E l’ho fatto, ragazzi. Ok, non sono diventato Bukowski ma ci campo con un certo stile.

Impossibile non citare poi, nella mia formazione artistoide, Twin Peaks, innovativo capolavoro di David Lynch, una serie capace di segnare per sempre un’epoca. 

Alla voce disimpegno, invece, come dimenticare il Karaoke e quegli anni in cui folletto Fiorello fece credere agli italiani che anche senza il mandolino restavamo un popolo di cantanti. Oppure Non é la Rai, che invece ci ricordò che siamo sempre stati, e sempre saremo, un popolo di eterni segaioli. Già che si fa riferimento a Onan, meritano una citazione i culi al vento delle 18e30, quando su Italia 1 andava in onda Baywatch di Pamelona Anderson. E anche gli agghiaccianti balletti sexi di Spice Girls et simili. 

Stasera la mia mente torna a quelle mattinate in giro, a saltare scuola appena possibile per gli scioperi o l’occupazione, ai bombardamenti nato sul’Iraq, alla guerra che  per la prima volta arrivava in diretta televisiva. Craxi, tangentopoli, l’arrivo di Berlusconi, il Milan di Capello che vinceva molto ma stava sulle palle a tutti. Le domeniche allo stadio, noi sempre in uniforme: bomber, dr Martens, jeans strappati e sciarpa d’ordinanza. La camicia, il maglioncino a righe e il montgomery solo per entrare in discoteca. 

E ancora: i film horror in vks affittati il sabato pomeriggio in videoteca, le playlist, che allora chiamavamo compilation, che facevi alla tipa che ti piaceva e dove non potevano mancare canzoni come Waves of Change degli Scorpions, Don’t Cry dei Guns e Home Sweet Home dei Motley Crue. Ma anche Vivere o Senza Parole del Blasco. E sto citando proprio le più ovvie. Senza scordare il wrestling commentato da Dan Peterson, le puntate di Willy Superfigo di Bel Air, di Casa Keaton, dei Robinson, fino ai concerti bubblegum, ma indimenticabili, di Michael Jackson. Cosby e Jackson: il papà buono che tutti avremmo voluto avere e lo zio strambo e pieno di talento che amava i bambini. Avessimo saputo cosa c’era dietro… 

Poi arrivarono i Nirvana, e Kurt Cobain spazzò via la paura di noi ragazzi di mostrarci per quello che eravamo di fronte a un mondo che stava cambiando. All’improvviso far vedere le proprie debolezze, la propria rabbia e la propria paura non era più oggetto di vergogna come per il macho anni ottanta ma qualcosa che si poteva, anzi doveva fare.

Intanto tutto si stava contaminando, tutto cambiava, gli steccati fra i generi crollarono come castelli di carte vecchie. Il fenomeno dei rave invase le nostre notti, a livello mainstream si affermarono proposte musicali inusuali quali Prodigy, Moby, Fatboy Slim o i Chemical Brothers. Il rock inglese invece si vestiva di vintage e, ribatezzatosi brit pop, proponeva moderne versioni di Beatles e Rolling Stones con gruppi tipo Oasis, Blur, Verve, Stone Roses e così via.

Lontano dal mondo dei rave per una radicata idiosincrasia verso l’insopportabile cassa dritta e mai stato troppo affascinato dai Fab Four – figurarsi i loro cloni – trovai rifugio nella mescola che odorava di contaminazione, nei libri e nei film: Manu Chao, il movimento delle Posse, il gansta rap di Pac e Biggie, i reportage di viaggio di Terzani, The Beach di Alex Garland, vera bibbia per chi in quegli anni virava verso l’Asia, lo schiaffo di Palhaniuk in Fight Club, la carezza pop di Nick Horby con Alta Fedeltà, la siringata di poetico disgusto del Welsh di Trainspotting e Colla, o le botte di John King col suo Fedeli Alla Tribù. Ovviamente tutto Bukowski, e poi John e Dan Fante. Il Brizzi imbastardito di Bastogne e Tre Ragazzi Immaginari. Andrea De Carlo. Gli incubi up-class di Brett Easton Ellis e quelli profumati di minimalismo yuppie di Jay McInerney. I diari di basket del grande Jim Carroll, le illuminazioni tornate attuali di Hesse in Siddharta. E come dimenticare il caschetto scazzato e i pantaloni over size di Natalie Imbruglia, i Red Hot Chili Peppers di Under the Bridge, i film di Gus Van Sant, i surfisti fuorilegge di Point Break, e poi Intervista col Vampiro, i dialoghi surreali di Pulp Fiction, la scena underground italiana che diventa mainstream: Subsonica,  Afterhours, Africa Unite, Prozac + (che la terra ti sia lieve Elisabetta Imelio), Esa, Bluvertigo, Sottotono, ecc. E poi Leo di Caprio che fa Romeo recitando Shakespeare in camicia hawaiana, l’ugola delicata di Jeff Buckley, quella consapevole di Ben Harper, oppure i video degli Aereosmith con Alicia Silverstone e Live Tyler. 

Non puó piovere per sempre” diceva il martire Brandon Lee nel Corvo. 

Io sono ancora vivo” rispondeva Eddie Vedder nell’iconica Alive dei Pearl Jam. 

Ma vi ricordate?

Quanto si era belli, puri, appassionati, difettosi e fragili allora. Tanto tanto fragili. Non era neanche tutta colpa nostra. Eravamo una generazione brutalmente schiacciata, presa in mezzo tra la naufragata illusione che il capitalismo made in Usa ci avrebbe resi tutti ricchi degli ottanta, e la certezza che nel nome di quella falsa illusione  ci avevano fregato persino la sedia da sotto il culo dei 2000 and more.

La storia ci ha barrato con una X, Generazione X, come il bel libro di Douglas Copeland. E così verremo trasmessi ai posteri. 

Oggi di quello strano decennio restano solo i nostri ricordi, frammenti confusi, raffreddati dagli anni, di un momento che é stato veramente nostro giusto il tempo di uno sputo. Atterrato neanche troppo distante. 

Ma Cristo di un Dio se ne é valsa la pena… 


Rock is dead alla Feltrinelli di Genova

Rock is dead è il nuovo progetto firmato Federico Traversa aka F.T. Sandman ed Episch Porzioni. Un libro e un programma radiofonico di successo in onda su Radio Popolare. Gli autori lo presenteranno mercoledì 24 maggio alle ore 18 alla Feltrinelli di Genova, in via Ceccardi.