I rasta non muoiono: un ricordo di Bunny Wailer

di Federico Traversa

Nel 2009 scrissi Bob Marley in This Life, il mio personale omaggio a Bob Marley, ai Wailers e al roots reggae, indiscutibilmente il genere musicale che più ho amato e maggiormente mi ha influenzato. Per farvi capire, la ditta individuale con cui fatturo gli articoli che scrivo o i diritti d’autore dei miei libri agli editori si chiama Wailers. Quando ero un ragazzino senza il becco di un quattrino costretto ad arrangiarsi con i più merdosi lavori di questa terra – lavavetri negli uffici dell’Ilva, barista, commesso in un negozio di scarpe, operaio in un colorificio, traslocatore – mi rivolgevo all’epica di Bob Marley, Peter Tosh e Bunny Wailer per trovare ristoro ai miei tormenti. Soprattutto quando la disperazione urlava forte e la cima del monte zion sembrava lontanissima, quasi irraggiungibile. Quei tre ragazzi poveri, malmessi, con situazioni famigliari super incasinate ce l’avevano fatta, e pure con stile. Quindi potevo farcela anche io. La loro musica aveva scaldato il cuore degli oppressi, il loro canto era riuscito ad accarezzare la barba di dio, tre “little birds” uguali ma diversi capaci di cantare con grazia la ribellione.

Bob, dei tre certamente il più noto, fu il primo a lasciarci, strappato alla vita da un maledetto cancro nel 1981, ad appena trentasei anni. Sei anni dopo toccò a Peter, l’anima più politica del reggae militante, freddato a quarantatré anni ancora da compiere da un malvivente del ghetto nel corso di una rapina parecchio strana. A tenere vivo il ricordo dei The Wailing Wailers – così si chiamavano in origine – era rimasto solo Bunny, il terzo little bird, quello che aveva lasciato il gruppo perché di girare come un forsennato in tour su e giù per babylon non ne aveva voglia; quello con un rapporto col tempo tutto suo, decisamente più libero e mescolato con la fede, dio, quel “natural mystic flow” che soffia tra gli alberi e gonfia le onde. E infatti dischi non ne ha fatti tantissimi e in tour è andato solo quando andava a lui, preferendo una vita più lenta, in cui potesse riconoscersi completamente. Da sempre impegnato nel sociale e premiato con l’ordine al merito dal governo giamaicano, Neville O’Riley Livingston – per tutti Bunny Wailer o, più affettuosamente, Jah B. – ci ha lasciati qualche giorno fa, per la precisione il 2 marzo, circa un mese prima di compiere 74 anni. Nel 2018 aveva subito un terribile ictus, dal quale si era ripreso non senza difficoltà dopo una lunga riabilitazione. Un nuovo ictus lo aveva colpito nel dicembre del 2020, costringendolo a un nuovo ricovero ospedaliero. Secondo Abijah Asadenaki Livingston – l’unico figlio maschio dei 13 avuti da Bunny e anche lui musicista – il nuovo ictus sarebbe stato causato dal dispiacere e lo stress accumulato per la scomparsa dell’adorata moglie Jean Watt, per tutti Sister Jean, con cui stava insieme da quasi 50 anni. Jean, malata di demenza senile, si era allontanata da casa nel maggio del 2020 e da allora non è stata più ritrovata.

Una fine triste per Jah B, con gli amanti del reggae di tutto il mondo in lutto e Blackheart Man – il capolavoro assoluto di Bunny pubblicato dalla Island nel 1976 – a risuonare simultaneamente nello stereo di noi tutti. Vedere poi, che nei nostri tg nazionali o in un contesto comunque “musicale” come il festival di Sanremo (iniziato proprio il giorno della scomparsa di Livingston) non si sia trovato tempo per salutare uno dei membri fondatori dei Wailers, lo trovo abbastanza vergognoso e di un’ignoranza al limite dell’imperdonabile.

A differenza di Bob e Peter, che ho potuto ammirare solo in video o ascoltare nei dischi, Bunny Wailer ho avuto la fortuna di vederlo di persona, una giornata stralunata e magica che non dimenticherò mai. Mi trovavo alla Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Dovevo presentare proprio Bob Marley In This Life e insieme a me c’era il maestro della black music in Italia: mahatma Alberto Castelli.

Quella sarebbe stata l’ultima edizione della manifestazione a tenersi Italia, e dall’anno successivo il Rototom si sarebbe trasferito in Spagna.

Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, “cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili”. Ci lanciammo subito in una bella chiacchierata su Marley, i Wailers, la storia del reggae. Davanti a noi un pubblico di una quarantina di persone. Eravamo già più che soddisfatti.

Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.

Mamma mia” disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri.

Bunny, vestito interamente di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, decisamente molto meno affabile dell’ex capoccia della Island. Ma fiero come poche persone abbia visto in vita mia.

La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato che Bunny non fosse di quell’idea e iniziò ad andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero folle e probabilmente anche ingiusto, soprattutto considerando quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo, ma Bunny la vedeva così. E sapeva convincerti, con quella voce incredibile, quasi ipnotica nel raccontare storie che sembravano uscire dall’epicentro di una terra fertile, magma di un tempo mitico ormai perduto.

È tristissimo pensare che oggi Jah B non sia più con noi, che quella voce non suonerà più nel mondo e per il mondo. Ma che non si parli di morte, sia ben chiaro. Perché i rasta non muoiono, al limite si confondono col vento che soffia fra i boschi…

Un inchino per l’uscita dal palco di Mr Bunny Wailer.

BOB MARLEY IN THIS LIFE ebook!!!

Finalmente disponibile in ebook a 5,99 uno dei più apprezzati libri sulla leggenda del reggae! Dalla penna di F.T.Sandman, il poeta delle jamaican motivation.

Con prefazione di Bunna e postfazione di Alberto Castelli.

http://www.ibs.it/ebook/marley-bob/in-this-life/9788898155170.html