“Ci Manda Manu Chao” – Quella volta che con Tonino Carotone incontrammo Don Gallo

di Federico Traversa

Un notte di tantissimi anni fa, mentre io e Tonino ci stavamo bevendo Barcellona e tutti i suoi fantasmi, incontrammo Manu Chao e, a dire il vero, un sacco di altra gente. Eravamo tutti stipati in un baretto vagabondo del barrio gotico, il Mariachi. Santi e peccatori, artisti e spacciatori, risate e rimpianti galleggiavano insieme, protetti da quelle quattro mura che odoravano di vino, tabacco e venere. E dove si suonava una musica strepitosa. Erano gli ultimi anni di quella mescola di suoni e generi frettolosamente definita patchanka, con gente tipo Sergent Garcia, Amparanoia, Macaco, Gogol Bordello, Bandabardò (sempre nel cuore Erriquez, grazie del ballo, già manchi da morire) e tanti altri a incendiare la notte con suoni contaminati che odoravano di tutte le diversità del mondo. Un’ultima grande stagione creativa prima che la musica si accartocciasse su stessa, appiattendosi fino a far scomparire tutte le sue meravigliose sfumature per diventare qualcosa di piatto, da ascoltare distrattamente sulle casse marce di un cellulare grande come una tavoletta di cioccolato.

Ma torniamo a visualizzare quella notte. Eravamo al Mariachi, proprio nel cuore pulsante del barrio chino, e la prima cosa che mi chiese Manu appena venne a sapere che ero di Genova, fu se conoscessi Don Gallo. Certo, di fama lo conoscevo eccome, nella sua comunità erano transitate tante anime tormentate con cui avevo intrecciato pezzettini di destino, ma personalmente non l’avevo mai incontrato.

Il desaparecido, stretto nella sua camicia a quadri, i capelli scombinati che spuntavano da un berrettino verde militare, mi consigliò di rimediare al più presto perché, parole sue, “fare due chiacchiere con Andrea te pone los pelos de punta”. Questo disse, o qualcosa del genere.

A quel punto anche Tonino, che da sempre si definiva un “antivaticanista convinto”, manifestò la voglia di conoscere questo strano prete che al Padre Nostro accompagnava i canti partigiani e più che il rosario amava recitare gli articoli della costituzione; sempre in mezzo a quei figli di un cane che non avevano niente, sempre in giro in quei quartieri dove la luce del buon Dio non arrivava con i suoi raggi. E per quanto riguarda quella notte, è più o meno tutto.

Passarono i mesi. Con Tonino finimmo di scrivere Il Maestro dell’Ora Brava, il nostro delirantediario di peccati, viaggi e risate sparse come sale sulle ferite delle tante notti trascorse insieme fra l’Italia e la Spagna. Quel libro ottenne una buona quanto inaspettata visibilità nazionale. Uscirono articoli sui principali quotidiani, venimmo invitati da Fabio Volo a MTV, e la rivista Rolling Stones ci dedicò un bel paginone definendo il libro una sorta di “confessione laica”. Mediaticamente fu davvero un bel colpo, eppure allora il libro non vendette tantissimo e in breve tempo sparì dagli scaffali delle librerie; poi con il tempo si è rivalutato e oggi, un po’ a sorpresa, non solo è andato esaurito ma è diventato quasi una lettura di culto per la generazione SDC (sta per “scappati di casa”, lo specifico per chi non è pronto). Su ebay l’ho visto vendere a prezzi assurdi e un paio di ragazzi ai concerti ne portarono una versione fotocopiata per farsela firmare! Queste sì che son soddisfazioni!

Con Tonino nacque un’amicizia speciale e quando lo portai dalle mie parti, in mezzo ai miei disperati, lui – ragazzo di strada di Pamplona – si sentì talmente a suo agio che Genova diventò la sua seconda casa. Cominciò a fermarsi spesso da me e, un giorno in cui avevamo un po’ più tempo del solito, decidemmo di andare a conoscere Don Gallo.

Andrea aveva da poco pubblicato Angelicamente Anarchico, un libro che aveva ottenuto un successo pazzesco. La storia di questo prete di strada e dei suoi disgraziati stava toccando il cuore di migliaia di persone.

Così chiamai la Comunità, mi presentai e poi dissi che Tonino Carotone, grande amico di Manu Chao, era in città e desiderava incontrare Don Andrea Gallo. Risposero che gli amici di Manu erano anche amici loro e che saremmo potuti passare quando volevamo. Così, verso sera, partimmo alla volta della Comunità San Benedetto, dieci minuti d’auto da casa mia. Eravamo io, Tonino e Piluca, la sua compagna nonché cantante dall’ugola morbida come un petalo di rosa. Donna incredibile, di un’umanità di altri tempo, alta, altissima. In tutti i sensi. Scalza misura circa un metro e ottanta. Con i tacchi sfiora il metro e novanta. Con Tonino che arriva a malapena al metro e settanta… insieme sono buffissimi.

Appena entrammo nell’ufficio e il Gallo vide Piluca, tuonò con la sua voce arrochita dall’immancabile toscano che stringeva fra le labbra: “Ma cos’è questo ben di dio?”.

Scoppiammo tutti a ridere, il ghiaccio si era rotto nel tempo dell’attacco di una rumba.

Chiese a due ragazzi della Comunità di andare a prendere delle birre e brindò al nostro arrivo. Spuntò anche una bottiglia di grappa barricata, se non ricordo male.

Dire che quell’incontro è stato uno dei momenti più importanti della mia vita non è un’esagerazione.

Andrea cominciò a raccontarci aneddoti, storie mitiche, barzellette e segreti, alternando momenti di profondità ad altri di leggerezza assoluta. Non ci voleva un genio per capire quanta straordinaria umanità e gentilezza abitassero quel corpo minuto, stretto in un maglione blu scuro.

Il Gallo non era soltanto un prete di strada che si prodigava per dare ai ragazzi la possibilità di vivere un’esistenza migliore ma anche un uomo di una cultura, un’intelligenza, un’arguzia e un’apertura mentale che probabilmente non avrei raggiunto nemmeno vivendo altri cento anni.

Stordito da mille sensazioni, mi fermai a pensare a quanto mi avrebbe arricchito collaborare con una persona del genere, assorbendo come una spugna tutte le cose che aveva da raccontare.

Già con Tonino avevo cominciato a parlare di certe cose, impegnandomi nella testimonianza di storie legate all’impegno sociale, alla spiritualità e a una visione del mondo il più possibile libera dai dogmi.

Con Don Gallo avrei potuto proseguire questo nuovo percorso affrontando quelle tematiche che sentivo vicine. Tematiche raccontate dalla voce di chi aveva vissuto e conosceva un miliardo di cose più del sottoscritto. A quel punto, dandogli del tu come mi aveva ordinato, gli domandai se fosse sotto contratto con qualcuno, perché mi sarebbe piaciuto lavorare con lui. Rispose che collaborava con chi capitava, l’importante era far passare quello che aveva da dire e magari riuscire a portare due soldi alla Comunità, che era sempre in rosso.

Gli spiegai allora che anche io avevo un progetto editoriale, tanto entusiasmo e altrettanta voglia di scrivere. L’unica cosa che mi mancava erano i soldi ma ormai ci avevo fatto l’abitudine, ridotto i bisogni al minimo e imparato a vivere con poco. E mal che andasse avevo ancora due reni perfettamente funzionanti che certamente avevano un buon valore di mercato!

Rise come un pazzo. Poi si fece raccontare di nuovo la mia storia, chiamò il suo assistente e gli disse: “Ma ti rendi conto, Marco? Questo ragazzo faceva il commesso in un negozio di scarpe e si è licenziato perché ama la letteratura e vuole fare i libri. E non è figlio di un industriale o di un professore ma di un ferroviere! Ma come si fa a non dargli una mano?”.

Mi suggerì di richiamare in Comunità qualche giorno più tardi per fissare un appuntamento, così avremmo potuto iniziare a lavorare.

Uscii da lì che ero contento come poche volte in vita mia.

Poco cristianamente io e Tonino ci ubriacammo per festeggiare.

Tonino in realtà non aveva niente da festeggiare, si ubriacò per supporto.

E per questo ancora lo ringrazio.

Jim Morrison e il grande beat – ascoltando i Doors sotto la pioggia

di Federico Traversa

Tempi bui, difficili, scuri, quelli che stiamo vivendo. Tempi senza poesia, senza arte, senza musica. In più piove e, per lo meno qui in Liguria, il grigiume uggioso che ci circonda sembra non finire mai. Andiamo avanti così da settimane. E non è facile. In questo periodo sono sommerso dai problemi, credetemi. Volatili per diabetici duri come pietre. E, come detto, piove. Piove e manca poesia. Poesia e musica nell’aria.

E come si combatte quel misto di preoccupazione, malinconia, ansia e scazzo esistenziale che ti avvolge in certi momenti?

Davvero non lo so ma io, nel dubbio, ASCOLTO I DOORS.

L’ho sempre fatto e probabilmente sarà alla loro musica che mi rivolgerò finché campo. Sin da quella sera di ormai quasi quarant’anni fa quando, bimbetto di prima o forse seconda elementare, rimasi rapito da quel suono ipnotico e quella cadenza sinistra ma non triste che accompagnava l’ultima canzone del lato B di quella strana cassetta che mio padre aveva infilato nel mangianastri dell’autoradio mentre rientravamo dalla campagna, attraversando il passo del Turchino inghiottiti dalla nebbia. Gliela aveva passata mio fratello Fabrizio, sette anni più grande di me, che già abitava un mondo fatto di rock e ribellione alimentato da gente tipo Pink Floyd, Neil Young, Lou Reed, Deep Purple, Black Sabbath e, da qualche tempo, pure dal gruppo protagonista di quella cassetta matchata sony di colore bianco e rosso. The Doors, così aveva scritto a penna Fabri sulla banda adesiva. E ciao. Rimasi rapito da quel mondo, da quei suoni dilatati – a tratti morbidi, a tratti ossessivi – dalla sensazione di entrare in una dimensione coerente seppur narcotica in cui non ci si limitava all’ascolto di una successione di canzoni ma si andava a vivere un’esperienza “inusuale”.

E poi c’era la voce, quella strana voce, così diversa da quella degli altri cantanti che le mie giovani orecchie di bambino avevano ascoltato. Ovviamente allora non capivo nulla di musica, e ad essere onesti probabilmente neanche oggi che ne scrivo, ma avvertii in quel canto qualcosa che mi faceva venire in mente gli indiani d’America, un popolo che mi affascinava e per cui tifavo con cori da stadio durante ogni film western. No, nessuna coscienza politica, nessuna consapevolezza delle tante angherie che i nativi avevano dovuto subire dall’uomo bianco, semplicemente adoravo i capelli lunghi, e quelli degli indiani, cristo santo, erano fantastici.

Ma torniamo al viaggio in macchina, alla nebbia fitta, alla pioggerella che cade mentre qualcuno ci racconta che “the blue bus is calling us”. Credetemi, io lo sentii davvero quel richiamo, e lo sento ancora oggi, in particolare nei momenti di scazzo cosmico, in particolare quando piove.

Stacco temporale; ho sedici anni, faccio la seconda superiore, ho da poco scoperto le ragazze e mi trascino ogni mattina verso la scuola senza voglia, desiderando di essere da tutt’altra parte, a vivere una vita diversa, lontano dai problemi. A casa va di merda, in famiglia è arrivata l’eroina e ogni volta che squilla il telefono la paura ci mangia vivi. Fabrizio è sempre stato un tipo inquieto. Intelligente, sveglio, uno che leggeva Dostoevskij a 11 anni e si faceva un sacco di domande. Era prevedibile si incasinasse la vita. Continuo ad ascoltare quella cassetta dei Doors, in particolare quando piove, ed è bellissimo lasciare lo sguardo a briglia sciolta fuori dalla finestra mentre quel suono invade la stanza.

Allora non esiste internet e i giornali musicali raramente parlano di un gruppo il cui cantante pare sia morto in una vasca da bagno 20 anni prima. Le uniche cose che so di questi Doors, sono frammenti di storia che il mio meraviglioso fratello borderline mi racconta a spizzichi e bocconi, quando gli vengono in mente. Tipo che il cantante dalla voce così tribale e ipnotica si chiamava Jim Morrison e, cito le parole di Fabri come me le ricordo, “era un fuori di testa, viveva sui tetti, scriveva poesie e andava nel deserto a farsi di peyote, il catctus allucinogeno che prendevano gli sciamani indiani. Belin, deve essere una bella botta, peccato che qui da noi non si trovi…”.

Capite bene che per un ragazzino di sedici anni che cercava solo un modo per fuggire da una realtà incasinata, un racconto del genere fu quasi una rivelazione. Quando una sera mio fratello portò a casa un altra cassetta registrata – stavolta nera, rossa e bianca, e chi ce l’aveva i soldi per comprarle originali? – la mia epifania proseguì. Solita bianca banda adesiva, stavolta con scritto non soltanto The Doors ma L.A. Woman – The Doors.

Donna di Los Angeles, un concetto così distante da Sestri Ponente, la periferia di Genova in cui stavo crescendo, una realtà operaia fatta di cantieri navali, Italsider, tossici con gli aghi conficcati nel braccio che si accasciavano nei bagni della stazione e un mare che non si riusciva più a vedere, se non salendo in alto, fino alla Madonna di quel monte Gazzo che da lassù ci stava proteggendo poco e male.

Amici, mi credete se vi dico, che stava tuonando quando partì l’ultima canzone del disco?

Non riuscivo a capire se la pioggia che sentivo provenisse da fuori o da dentro le cuffie, per accompagnarmi attraverso la magia liquida di Riders on The Storm.

Quel disco mi ammaliò ancora più del primo, già mi immaginavo con lo zaino in spalla e le cuffie nelle orecchie, in giro per il mondo alla ricerca del grande beat.

Lo ascoltavo tutte le mattine, sul treno di noia che mi portava a scuola.

Considerate adesso che, fino ad allora, io Jim Morrison non l’avevo mai visto, nemmeno in foto.

Poi arrivò il film di Oliver Stone e cambiò tutto.

Fu Doorsmania. Fu Morrisonmania.

Poster, libri vecchi di anni che trovavano nuovo smercio e venivano ristampati, la copertina del The Best of the Doors che campeggiava ovunque, col ritratto a torso nudo del giovane leone Jim, con i capelli lunghi e arruffati, la collanina di perle e quello sguardo pericoloso.

Scazzo esistenziale a parte, a scuola andavo bene, così mia madre mi diede i soldi e quella raccolta – più tardi avrei capito che più che un best era una semplice selezione di singoli perché se nel meglio di un gruppo come i Doors tralasci pezzi come Soul Kitchen, Peace Frog, The Soft Parade, Roadhouse Blues, The Spy, sei un criminale – fu il primo disco originale comprato dal sottoscritto.

Poi, un sabato pomeriggio, andai a vedere il film.

… … … … …

Fermo restando che era una pellicola non del tutto veritiera, esagerata, non corretta nei confronti di Morrison e tutto quanto, avete idea cosa potesse provocare un film del genere in un ragazzino inquieto, poco avvezzo alle regole, con tanti casini in casa e una passione smodata per la poesia e il mondo degli indiani?

Fu una detonazione. Uscii da quel cinema – mi pare fosse l’Universale, che se la memoria non mi inganna stava in via Cesarea, più o meno dove ora c’è la Feltrinelli – che ero completamente stonato. Stonato di parole, suoni, suggestioni, idee, possibilità…

Combinazione, anche in quello strano pomeriggio del 1991, pioveva a dirotto ma me ne fregai bellamente e mi feci la strada fino alla fermata dell’autobus in P.zza Caricamento – amici non genovesi, credetemi se vi dico che da via Cesarea è un bel pezzo – sotto la pioggia, con L.A Woman in cuffia, i capelli fradici e il bomber blu d’ordinanza così zuppo che l’acqua iniziò a scendermi sul collo, visto che quel reperto bellico degli anni novanta di colletto non ne aveva proprio.

Qualche giorno più tardi scrissi la mia prima poesia, Era Lei, dedicata a una ragazza svizzera che avevo conosciuto d’estate all’isola d’Elba. Versi sciatti e banali ma almeno avevo iniziato. Un’altra ragazza dolcissima, dai capelli scuri tagliati tipo la Valentina di Crepax e gli occhi azzurri, mi regalò Nessuno Uscirà Vivo di Qui, la biografia di Jim.

Leggerla fu la fine di quello che ero e l’inizio di ciò che sarei diventato. Grazie al bellissimo, seppur discusso, libro della coppia Hopkins/Sugerman conobbi tutti quegli incredibili scrittori che avevano influenzato Jim: Baudelaire, Rimbaud e tutti i simbolisti francesi; Jack Kerouac, la beat generation; Carlos Castaneda, lo sciamanesimo; Aldous Huxley e le esperienze psichedeliche; William Blake; la meditazione trascendentale. E poi le onde dell’Atlantico, i motel da pochi spiccioli di L.A., la Parigi degli artisti, il deserto, i navajo, la stregoneria… da uscirne pazzi.

E infatti impazzii del tutto e, forse, non sono ancora rinsavito.

Oggi ho 45 anni, al solito piove a dirotto in questa fottuta città e la mia vita è cambiata almeno in 100 modi diversi da allora. Ho una moglie bellissima, due figli meravigliosi e qualche casino di troppo, ultimamente. Ho Imparato a meditare e a scendere a patti con le regole ma una certa inquietudine esistenziale è rimasta, credo che da quella non si guarisca. Dove sono io c’è sempre musica nell’aria, tanta musica nell’aria. Di mestiere faccio lo scrittore e ho un programma alla radio, si chiama Rock is Dead, come quella pazza jam che una sera del ‘69 i Doors registrarono ai Sunset Sound.

Perché faccia questo mestiere, perché continui a battere le dita sulla tastiera alla ricerca del grande beat, beh, ora lo sapete.

E quando piove, quando avete lo scazzo cosmico, davvero amici, datemi retta: ascoltate i Doors.

Quella volta in cui ho visto giocare Maradona

di Federico Traversa

Campionato 1989-90, ho 14 anni e i miei genitori hanno finalmente ceduto: dopo tre anni che imploro, e visto che sono un ottimo studente, mi regalano l’abbonamento di Gradinata Nord, il cuore pulsante della tifoseria rossoblù. Un posto mitico e mitizzato da cui si alzano quei cori magici per il Genoa, la mia squadra del cuore, che dopo anni infiniti nella cadetteria è finalmente tornata in serie A sotto la guida dell’uomo di Lipari, il capo popolo Franco Scoglio.

È il Genoa del Presidente Spinelli, del trio uruguaiano composto dal macchinoso Perdomo, dal fantasista Ruben Paz e dal guizzante Pato Aguilera, meraviglioso centravanti che la Nord adotterà come uno dei suoi figli prediletti, soprattutto quando, qualche mese dopo, finirà in manette per un crimine tutto da dimostrare.

Ricordo tutto di quel giorno, persino com’ero vestito: bomber blu d’ordinanza, jeans con le toppe, Doc Martens con la punta di ferro e sciarpa del Genoa, quella con la scritta Sestri Rossoblù che mi aveva venduto l’anima pia di Miglio del Genoa Club Sestri. E poi l’incontro col Galle e Christian in quartiere, due calci al pallone e via di corsa in stazione a prendere il treno per Brignole insieme agli altri tifosi, di tutte le età, dai bambini accompagnati dai papà ai ragazzi più grandi con lo sguardo da duri che animavano la gradinata.

Allora gli stadi non erano esattamente un posto sicuro, o perlomeno così si diceva alla televisione, e i genitori avevano paura a mandarci da soli. Personalmente, ho frequentato il Ferraris per oltre vent’anni e non sono mai stato coinvolto in alcun scontro né ho mai avuto da ridire con qualcuno. Poi non so, parlo solo per la mia esperienza ma, da quello che ho capito, tendenzialmente i guai capitano a quelle teste di cactus che se li vanno a cercare.

Comunque quella domenica i miei erano più tranquilli del solito perché il Genoa giocava contro il Napoli e le due tifoserie erano legate da uno storico gemellaggio.

Per noi, invece, l’epicentro dell’estasi era rappresentato da un altro fattore: il fattore M. Infatti avremmo visto giocare Diego. Diego Maradona. M-A-R-A-D-O-N-A.

Istinto, visione, ritmo e poesia. Vederlo giocare al calcio era un’esperienza mistica. Come sentir cantare Marley, veder boxare Ali, come i colli lunghi di Modì, il gancio cielo di Kareem, i versi di Rimbaud, come le curve strette di Ayrton, i lob di McEnroe, le visioni di Fellini, il mare d’inverno che suona la sua scura canzone…

Amavamo tutti Maradona, era un tipo istintivo, passionale, incredibilmente umano. Veniva da un contesto di estrema povertà e quindi naturalmente empatizzava con i più deboli. Per noi, figli della classe operaia della periferia di Genova, era un esempio, esattamente come le era per la sua gente dei quartieri poveri di Buenos Aires, o per quel brodo di umanità, sangue e sudore che ribolle nei quartieri spagnoli e nei vari rioni di Napoli.

Fu una gran partita, ragazzi. Il Genoa, il nostro Genoa tutto cuore e corsa targato Mister Scoglio, giocò benissimo contro la squadra del campionissimo argentino. Passammo addirittura in vantaggio con un gran gol del biondo Davide Fontolan, poi loro persero il baffuto terzino brasiliano Alemao, che venne espulso per un fallaccio mi pare proprio su Pato e poi… e poi Caricola, il nostro centrale difensivo scuola Juve, commise uno stupido fallo di mano in area. Forse pensava di giocare ancora con gli impuniti bianconeri, chissà…

Rigore per il Napoli. Sotto la nord. A tirarlo lui, el diez.

Lo osservai con attenzione, mi sembrava impossibile fosse a una ventina di metri da me. Osservai la sua chioma riccioluta, il collo imponente, le gambe massicce e un po’ storte, il modo che aveva di saltellarle sul posto, che quasi sembrava danzasse.

Possibilità che Gregori, il nostro non impeccabile portiere, parasse il tiro? Poche, per non dire pochissime. E infatti, pur intuendo la traiettoria, la palla finì all’angolino.

Uno a uno e tutti a casa.

Noi felici perché un punto contro il Napoli era tanta roba, e loro pure, perché la partita si stava mettendo male.

Per me, Galle, Chri e tutti gli altri ragazzini presenti, però, quel pomeriggio era stato grandioso per un altro motivo: avevamo visto giocare Diego dal vivo, non in video come capitato con i vari Cruyff, Eusebio o Pelè. Avevamo visto con i nostri occhi il più grande e un giorno l’avremmo raccontato ai nostri figli.

L’anno dopo Maradona non giocò a Marassi contro il Genoa, era fuori per infortunio, e da lì a poco lasciò Napoli e l’Italia, quindi quella partita fu un “one shot” indimenticabile.

Eppure Diego sarebbe rimasto nella mia vita, tornando di tanto in tanto ad accendere la mia fantasia.

Quando con Tonino Carotone incontrai Emir Kusturica, per dire, il sommo regista slavo stava iniziando le riprese del suo film sul Pibe de Oro, e finimmo a parlare di calcio, di Genoa, Osasuna, Napoli e, ovviamente, El Diez.

Stessa cosa un anno dopo con Manu Chao, che a Diego aveva dedicato una bellissima canzone e che ci raccontò quanto era stato emozionante incontrarlo.

E poi è arrivata Daria, mia moglie, napoletana 100%, con cui ho vissuto e vivo la città dei Borboni in ogni suo anfratto. Napoli, la sua magia, la storia, la fantasia folle della sua gente. Napoli, dove il 30% dei maschi nati negli anni ottanta si chiamano Diego, dove ho trovato una seconda famiglia che mi ama come un figlio, un fratello, uno di loro. Napoli, la squadra per cui tifa Alessandro, il mio primo figlio. Ovviamente insieme al Genoa.

Anzi, appena torna da scuola voglio farlo sedere sulle mie ginocchia e raccontargli, con la voce impostata delle grandi occasioni, di quella volta in cui il suo vecchio padre ha visto giocare Diego Armando Maradona. Più o meno è questo ciò che mi ero ripromesso di fare trent’anni fa mentre, pizzetta post partita in una mano e Coca Cola fresca nell’altra, rincasavo dallo stadio con Galle e Chri, e il futuro mi stava aspettando tiepido come quel sole a forma di dieci che stava tramontando.

Flavio Gaggero – La Grande Anima di questa città

di Federico Traversa

C’è un personaggio nella tradizione zen che si chiama Hotei ed è una specie di grasso Babbo Natale senza la barba. Lo avrete visto sicuramente nelle tante statuette che lo raffigurano, molti credono erroneamente sia il Buddha.

Pelato, sempre sorridente, ha un rosario al collo e un borsa a tracolla che non si svuota mai, con cui nutre i poveri e i bisognosi.

Pare che la sua figura derivi da un monaco Chan di grande bontà, di nome Qìcǐ ma conosciuto come Maitreya, che visse intorno al 500 d.C. sotto la dinastia Liang.

Altre fonti lo pongono invece in India; il suo nome era Angida, un abile cacciatore di serpenti dal cuore d’oro: dopo averli catturati toglieva loro il veleno per evitare che mordessero i passanti e poi li liberava.

Sia quel che sia, oggi Hotei è una figura leggendaria e rappresenta prosperità, generosità e amore.

Nella tradizione zen si dice che possa cavar fuori dalla sua borsa tutto quello che serve per aiutare le persone che incontra.

Sei un assettato? Lui ti sorride e tira fuori una bottiglia d’acqua.

Sei arrabbiato perché ti si è bucata una gomma della macchina? Ecco che dalla borsa esce dello spray per ripararla.

Hotei è quello che nel buddhismo viene definito un bodhisattva, cioè una persona che spinta dalla compassione sceglie di lavorare per l’illuminazione e il bene di tutti gli esseri viventi. Lui è tra noi per servire e non per essere servito.

Flavio Gaggero di mestiere fa il dentista, è un cristiano praticante e di buddhismo credo sappia molto poco, eppure è forse la persona più simile a Hotei che abbia mai incontrato.

Sempre allegro, sorridente, felice, se gli chiedi come va risponde immancabilmente: “Bene, anzi benissimo”, perché la vita per lui è un regalo del buon Dio e il solo fatto di esserci va salutato con gioia, figurarsi poi se si è nati nella parte fortunata del mondo.

In quasi quarant’anni che lo conosco non l’ho mai visto arrabbiato, pensieroso, oppure triste. Persino quando ha avuto problemi di salute importanti il suo bellissimo sorriso non l’ha mai abbandonato.

A 84 anni suonati lavora ancora 12 ore al giorno curando gratuitamente migranti, senzatetto, indigenti, anziani con la pensione sociale, chiunque abbia bisogno insomma. Tutti i poveri cristi in difficoltà che hanno mal di denti ma non possono permettersi l’intervento di qualcuno che glielo faccia passare da lui trovano ristoro.

Ma non pensate a un dentista terzomondista costretto a raffrontarsi solo con pazienti vittime del giogo della brutalità sociale; dal buon vecchio Flavio transitano così tante bocche importanti che i media si sono spesso occupati di lui definendolo, con poca fantasia, “il dentista dei vip”.

Da Renzo Piano a Gino Paoli, passando per Beppe Grillo, Ornella Vanoni e le buone anime di Don Gallo e Paolo Villaggio, quello studio ha visto davvero di tutto.

L’unica differenza fra i pazienti è che se sei ricco e famoso paghi l’otturazione, mentre se sei una persona in difficoltà non solo non paghi il lavoro, ma probabilmente esci dallo studio con il portafoglio un po’ più pesante, merito delle corpose donazioni di questo Hotei col trapano in mano, che se non ci fosse andrebbe inventato.

Ho iniziato a frequentarlo da piccolo, bambino pauroso con i denti storti, per poi ritrovarmelo durante i miei anni di collaborazione con Don Gallo e la Comunità San Benedetto al Porto. Oggi Flavio, a cui da qualche anno sono finalmente riuscito a dare del tu, è l’amico fidato che tende la mano ai “miei migranti”, un gruppo di amici nigeriani in difficoltà che cura gratis appena glielo si chiede, e ai quali a volte riesce persino a trovare qualche lavoretto.

Quando ho saputo della sua candidatura con la Lista Sansa mi ha fatto veramente piacere, Ferruccio non solo è un collega che stimo per le sue inchieste sempre corrosive e interessanti, ma una persona ispirata e seria. E aver offerto questa possibilità a Flavio un gesto che dimostra grande umanità. Perché, parliamoci chiaro, la politica – al netto di competenze, budget, progetti ed idee – ha un disperato bisogno di bontà. Si ho detto bontà. Per far politica davvero efficacemente credo serva avere dentro di sé quel sentimento di empatia che arde come un fuoco sacro, e spinge a perseguire il bene comune. Te ne dovrebbe importare, e tanto, delle persone per fare questo mestiere. Lo ripeto: serve bontà, poi esperienza e infine lungimiranza. Con queste tre caratteristiche quel piccolo indiano che chiamavano Mahatma – che vuol dire grande anima – ha sconfitto gli inglesi senza alzare un dito.

Anche Flavio Gaggero é un mahatma, e spero che la sua elezione possa portare in Regione quella bontà necessaria per sconfiggere tutto l’egoismo, l’indifferenza e l’ignoranza gretta di una politica che per anni se n’è fregata degli altri, e ha pensato solo a far mettere le chiappe al sole agli amici, e agli amici degli amici, condendo il tutto con slogan, propaganda becera e passerelle.

D’altronde, come diceva sempre Don Gallo al suo cardinale, i peccati capitali non sono solo sette ma ne esiste un ottavo, forse il più grave: l’indifferenza.

E Flavio Gaggero, come Don Gallo, Gandhi e il panciuto Hotei, è tutto fuorché indifferente.

Forza, Grande Anima!

‘It’s So Easy e Altre Bugie’ alla Feltrinelli

Venerdì 21 febbraio ore 17 e 30. Feltrinelli Genova, via Ceccardi.

La scrittrice Sara Boero insieme ai tipi di Chinaski presenterà “It’s So Easy e Altre Bugie”, l’autobiografia di Duff McKagan dei Guns N’Roses. Per il New York Times uno dei libri rock più belli di sempre!