“Tartarughe all’Alpe Devero”

di Federico Traversa

Superata una cascata che gocciola il suo rigenerante loop di acqua e rumore, preso atto che raramente mi è capitato di vedere alberi così alti e verdi, sono a un passo dal Devero. Ed ecco Barbara. Pantaloni sbracati, Superga portate al piede tipo sabot, tatuaggi dappertutto, mozzicone spento in bocca, rilassata ai limiti del narcotico, il sorriso bello di qualcuno che veramente adora vedere il sottoscritto e la sua disfunzionale famiglia.

La mia amica è a bordo di una specie di pick up molto roots, su cui starebbe comodamente seduta, mazze comprese, una squadra di hockey.

Mia moglie Daria sale davanti, io mi metto dietro coi topi, che non sono proprio topi ma i nostri 2 bambini Ale e Leo, anche se da come rosicchiano qualunque cosa vai poi a sapere…

Siamo all’Alpe Devero dicevamo, ostile angolo di paradiso nell’estremo Piemonte, a un passo dalla Svizzera, chicca turistica per chi ama scarpinare su in montagna fino a baciare le chiappe del cielo.

Barbara, genovese 100% cresciuta a pane e mare, figlia di un palombaro, sale e onde dentro e fuori dal cuore, ci vive da oltre 30 anni. E non è stato facile. Per chi nasce a uno sputo dal mare, solitamente la montagna è bellissima solo vista da distante.

Eppure “love is the answer”, come cantava qualcuno, e lo è stato anche per lei, che si è innamorata giovanissima di Michele, un insegnante di sci originario del posto dall’altissimo livello di figaggine, e ha scelto di seguirlo fin quassù, gestendo con lui il Rifugio Capanna Castiglioni, fra stufati di cervo, polenta, turisti tedeschi con zaini grossi come un monolocale zona navigli, camere, cameroni e tanta, troppa neve. Per lo meno sei mesi all’anno, perché adesso si sta da Dio, il sole è caldo, il venticello leggero e, mentre percorriamo la piana perdendoci in quel verde pacifico, non ci avvicina un solo problema al mondo.

Un caffè in rifugio, due chiacchiere con Fede, il cuoco argentino dal sorriso di un ammaliante tanghero, e arriva Michele. Quando lo conobbi, ormai quasi 30 anni fa, divenne subito il mio idolo. Arrivò a Genova per una breve visita ai suoceri, con Barbara e la piccola Morgana, che avrà avuto meno di un anno. Rebecca, la loro seconda figlia, sarebbe arrivata tre anni dopo.

Era inverno e tutti noi ci lamentavamo per il freddo pungente e il vento che dal mare spazzava duramente la città. E niente, arriva questo leggendario ragazzo della montagna con cui si è messa Barbara, con i capelli lunghi, gli occhi penetranti, un paio di pantaloni leggeri e… in maniche corte. E se ne gira così per una settimana, a novembre!

Ma non è solo per questo che divenne il mio idolo; al sottoscritto – cresciuto in un ambiente al limite del nichilismo più drogato, in cui eri un figo se bevevi più di tutti, fumavi finché non ti si cuoceva il cervello, ti stordivi fino a un passo dal non ritorno – la cosa che più lo colpì di Michele fu la sua sobrietà. Non fumava, non beveva, non inalava nient’altro che aria, non raccontava storie in cui aveva stupidamente rischiato di morire, non si autodistruggeva disprezzando quell’immenso dono che é la vita come facevano gli altri. Eppure era un super figo.

Per il diciottenne che ero, fu forse il primo modello positivo che vidi da vicino, qualcuno che col suo comportamento mi indicava una strada diversa.

Per questo lo abbraccio forte tutte le volte che lo vedo, come adesso, che me lo trovo scalzo sulla piana, i lunghi capelli sostituiti dalla pelata, un barbone da vichingo a proteggere il viso dal vento, sorridente e forte nonostante la vita gli stia continuando ad alzare l’asticella delle difficoltà.

E sì, anche se oggi sono un papà di 45 anni, quel ragazzo che quasi trent’anni fa girava Genova d’inverno in t-shirt é ancora il mio idolo.

E intanto il tempo rallenta fino a cristallizzarsi, come immancabilmente capita a Devero, dove le strade da seguire sono sempre e solo 2: camminare verso l’alto oppure sedersi a non far nulla, guardando uno dei tanti capolavori di Dio.

Scegliamo la seconda opzione, con i bambini che giocano vicino al ruscello e noi che ci godiamo il sole, lenti e bellissimi.

Daria e Barbara hanno legato tanto ultimamente, mia moglie ha trovato quell’amica più grande e saggia di cui aveva bisogno in questo momento così delicato. Una magia di mio fratello Fabri, che prima di lasciarci ci ha unito indissolubilmente.

Barbara per lui era più di una sorella. Quando ancora sperava di guarire regalò una tartaruga di legno a noi, una a Barbara e un’altra la tenne per sé, col sogno di riunirle un giorno in una grande casa, lontano dalla città, dove avremmo vissuto tutti insieme. Era la sua splendida, bellissima utopia.

Quel maledetto tumore non ce l’ha permesso, ma ora siamo uniti nell’amore vero di chi ci ha amato, tutti sotto la corazza della tartaruga. Ed é come se Fabri fosse sempre con noi. Anzi, levate il probabilmente. È con noi e punto.

E prima o poi le riuniremo quelle tartarughe.

A Devero vengo a sapere di tutte quelle storie mitiche che abitano la zona. Da Don Amedeo Ruscetta, il parroco che maneggiava le vipere a mani nude, le teneva in un bidone in giardino vicino al suo orto e poi le vendeva all’istituto sierologico di Milano per fare l’antidoto. La leggenda dice che era talmente bravo a maneggiarle che non lo mordevano mai.

Posti di streghe, sabba magici, intrugli, sesso promiscuo ad alta quota e sangue d’infante, questi. Leggende davvero sinistre aleggiano qui in giro, anche se mi sa che alla fine, stringi stringi, con la scusa della magia hanno massacrato solo delle povere donne che cercavano di alzare la testa reclamando quei diritti che marcano visita ancora oggi.

Vengo poi a conoscenza dei Walser, nomadi austriaci che popolavano la zona costruendo i villaggi con le loro tipiche case di legno e pietra e, quando il territorio non poteva più sostenere tutti, i giovani si spostavano altrove dando vita ad altri villaggi.

Mi raccontano anche della leggenda di Croveo e del ponte sulla cascata detta “La Caldaia del Diavolo” dove si dice che se ti sporgi troppo arriva il Diavolo con il suo rampino e ti tira giù. Per la cronaca: sono stato a visitare il posto il giorno dopo e mi ha mancato per un pelo. In compenso stava per uccidermi mio figlio Leo, che ha smesso di camminare costringendomi a una salita con lui in braccio da infarto!

E poi incontro il mito dei miti quassù, Tony Galmarini, un alpinista leggendario, che ha scalato montagne con gente tipo Walter Bonatti e, a più di 90 anni, nella zona è una specie di totem sacro.

Tony ha aperto una piccola biblioteca nel casotto dove una volta si vendevano abiti tecnici per la montagna; parlare con lui è un’esperienza appagante per chiunque ricerchi quelle storie mitiche ormai perdute. Se passate di qui, andatelo a cercare.

E mentre Barbara ci riaccompagna alla nostra macchina, con il pomeriggio che si accovaccia sonnacchioso per lasciare posto alla sera, senza pensare troppo alzo lo sguardo verso il cielo perdendomi ad osservare tre nuvole correre velocissime.

Giurerei che abbiano la forma di una tartaruga.

E noi liberi, al sicuro, ancora e sempre sotto il loro guscio.