L’Inter, i 30 mila in piazza e il saggio nella grotta: Pazza Italia, amala…

di Federico Traversa

Da quando è iniziata questa pandemia, siamo stati chiamati a gestire la nostra libertà passando attraverso la maglia stretta delle restrizioni e utilizzando la bussola del buon senso e della pazienza.

E questo perché, 3 milioni di morti nel mondo sono un numero intollerabile. Ho perso un persona cara meno di un anno fa ed è stata una tragedia; moltiplicare questa sofferenza per 3 milioni di volte porta un dolore non facilmente sopportabile.

Una piccola premessa: da anni in questo paese “qualcosa” – chiamiamola mala politica, incompetenza, corruzione, mal governo, sistema corrotto, fate voi – si mangia gran parte delle risorse comuni, portandosi a casa anche agli avanzi. Per questo non siamo stati in grado di sostenere con soldi veri – non elemosina – le tante attività costrette alla chiusura dal lockdown. E sempre per questo, da qualche giorno si è deciso di riaprire tutto invece di aspettare la conclusione di almeno una buona parte della campagna vaccinale. Ci sta, nella vita fai quello che la tua condizione ti permette. E la nostra, di condizione, rasenta le pezze al sedere. Il presupposto affinché tale scelta funzioni, tuttavia, è che le persone si affidino a quel buon senso di cui parlavamo all’inizio, evitando comportamenti che possano far salire nuovamente la curva dei contagi, con conseguenti nuove chiusure, ennesimo collasso del sistema sanitario e sempre più morti.

Ora, a me non piace girare con la mascherina, credetemi. Mi da fastidio, irrita la pelle e mi rovina il look da ultra-quarantenne stropicciato che tanto amo. Eppure me la metto sempre quando esco, è una questione di rispetto. Non mi sento un rivoluzionario a toglierla, mi sento un imbecille irrispettoso a non metterla. E ancora: non mi piace vedere mio figlio imbavagliato, vorrei vederlo libero di sputacchiare la sua emozione addosso al mondo come facevo io alla sua età. Però faccio in modo che se la metta e – grazie a tanta fortuna ma anche all’attenzione da parte sua, dei suoi compagni e degli insegnanti – la sua classe fino ad ora si è fermata una sola settimana in tutto l’anno, facendo lezioni sempre in presenza.

Non vivo da recluso. Esco, vado in spiaggia, in campagna, cammino ogni giorno, stando però attento a non infilarmi in situazioni affollate, perché in questo momento non è il caso. Piccole attenzioni per cercare di aiutare, tanto me quanto il mondo, a tornare a una parvenza di normalità. Comportamenti che probabilmente non basteranno a non contagiarmi se poi, quando sono in coda al supermercato, il tipo dietro di me mi sta a 20 cm abbassandosi la mascherina sotto il naso o se la riapertura delle attività per “gravi motivi di miseria” viene vista dal mio prossimo come un liberi tutti e “in culo al coronavirus”. Comunque, nel dubbio, cerco di fare il mio. In tanti lo fanno. Sacrifici, piccoli o grandi, che in questi mesi hanno toccato tutti seppur, questo va riconosciuto, non nello stesso modo. Ma non è questo il punto. Il problema è un altro.

Ieri l’Inter ha vinto il campionato. E allora, ciao ciao buon senso. 30mila in piazza a festeggiare lo scudetto, assembrati, senza mascherina, abbracciandosi e sputandosi addosso i nomi dei giocatori che meritatamente hanno raggiunto un così importante obbiettivo (fosse stata un’altra squadra a vincere, sia chiaro, sarebbe stato lo stesso). Tutti in piazza, tutti a far festa, che tanto “andrà tutto bene”… e ora diglielo a ristoratori e albergatori alla canna del gas, musicisti e lavoratori dello spettacolo alla fame, baristi… spiegate alla gente normale il metro di distanza, il disinfettare tutto, la DAD per gli studenti, i cinema chiusi, i concerti che non si possono fare…

Ma non è di questo che voglio parlare. Il senso di quello che desidero comunicare è tutt’altro. Oggi, ancor più di ieri, capisco che Buddha, Shankara, Maharishi e i tanti saggi che negli anni mi hanno nutrito con i loro insegnamenti avevano ancor più ragione di quanto pensassi. Finalmente capisco cosa voleva dire Terzani quando parlava di isolarsi dal mondo per riuscire a capire la vita. Adesso mi è chiaro perché Buddha non era un rivoluzionario, o perché molti mistici della storia se ne stavano per conto loro, apparentemente fregandosene delle ingiustizie sociali. Da dentro una grotta o nascosti in un ashram ai loro seguaci dicevano solo “medita, cerca le risposte dentro te stesso, comprendi e governa la tua mente, scopri chi sei”.

Avevano ragione. Ai 30 mila imbecilli di ieri, al tipo che se ne frega del Covid perché pensa sia una montatura fatta ad arte da quelli che hanno costruito il 5G, o al politico che si vende il proprio paese per quaranta denari, non lo cambi spiegandogli le cose o scendendo in piazza a manifestare. Se però cambi te stesso, diventi immune alla sofferenza, impermeabile a paura, avidità, ingiustizie e pene (ma coltivando sempre la compassione), lui certamente resterà sé stesso, ma un sé stesso divorato dall’invidia. Invidierà la tua calma, la tua pace interiore, il tuo distacco, il tuo equilibrio. Non potrà comprare queste qualità con il denaro né ottenerlo con una scazzottata. Ma le desidererà ardentemente.

E allora si convincerà a fare quello che fai tu per poterti assomigliare.

Adesso capisco cosa intendeva dire Gandhi con “cerca di essere il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Ora so quanto possa essere più salutare chiudersi a meditare in una grotta o sulle cime di un monte che urlare a squarciagola in una piazza gremita “i campioni d’Italia siamo noi”.

Pazza Italia, amala…

Perchè si soffre?

disegno di Daria Cadalt

di Federico Traversa

Pineta di Arenzano, riviera ligure. È un caldo ma non afoso pomeriggio d’estate e sono seduto nel patio della casa di Giulio Cesare Giacobbe.

Alla mia destra un Buddha di teak ci osserva benevolo, mentre due grossi alberi ombreggiano una bella fetta di giardino.

Come concordato, oggi inizia la mia intervista col “Buddha”.

Un po’ emozionato, d’altronde non mi capita tutti i giorni di raffrontarmi con personaggi storici, parto con la prima domanda: il motivo per cui soffriamo.

È incredibile se ci pensiamo, ma di persone completamente serene, al mondo, se ne incontrano veramente poche. Anche chi ha tutto, ma proprio tutto, è solito lamentarsi perché gli manca qualcosa.

Ricordo che da piccolo notai questa perenne insoddisfazione negli adulti e feci una specie di sondaggio per cercare di comprenderne il motivo. Evidentemente avevo l’indole del curioso rompiscatole già allora.

Per alcuni mesi domandai a qualsiasi adulto incontrassi se fosse felice o meno. E tutti mi rispondevano con una certa sincerità. Vai a capire perché: sarà stata l’innocenza dei miei otto anni. Ebbene non ne trovai uno che mi dicesse: “Sì, sono felice, sereno e appagato”.

A tutti mancava qualcosa, oppure avevano paura di perdere quello che avevano faticosamente ottenuto. Desideri inappagati e paura di eventuali mancanze. A volte entrambi. Da uscirne pazzi.

Per questo, sebbene la mia prima domanda al Prof potrà a una prima occhiata sembrare banale, a ben vedere non lo è per niente. L’uomo si picchia con questa risposta da quando ancora si aggirava per la giungla con una clava in mano mentre la moglie rassettava la grotta che, si sa, i pipistrelli portano malattie.

Dunque… perché soffriamo?

Secondo il Buddha si soffre per un errore di conoscenza, perché si crede che esistano cose che rimangono uguali a se stesse nel tempo.

Si crede permanente ciò che in realtà è impermanente: la mamma sempre affettuosa e piena d’amore; il marito sempre fedele e innamorato; il conto in banca sempre in attivo, la moglie sempre servizievole e disponibile; la salute sempre perfetta, i figli sempre rispettosi e obbedienti.

La realtà è che non esistono cose, persone o situazioni che rimangono uguali a se stesse.

Noi non viviamo in un universo statico ma in un universo dinamico, dove tutto cambia continuamente.

Credere nella permanenza ci porta a soffrire perché conduce a uno scontro continuo con la realtà, una realtà che ci mette di fronte al fatto che niente è per sempre.

E allora soffriamo.

L’unico modo per non soffrire è accettare il cambiamento.

Accettare il mondo com’è, diverso in ogni momento.

Il segreto della felicità è molto semplice: godersi quello che c’è e non pretendere quello che non c’è.

Però non lo fa nessuno.

Quindi sono tutti infelici.

Se seguissimo tutti l’insegnamento del Buddha, ciò non accadrebbe.

Bisogna accettare l’impermanenza.

Certo, l’impermanenza ci obbliga ad accettare la mancanza di punti di riferimento.

Occorre non essere attaccati a nulla, essere capaci di vivere nell’attimo, nel qui ed ora.

È il “carpe diem” di Orazio.

Per alcuni è dura, lo so.

Per quelli che sono abituati ad accumulare beni, che vivono in funzione del futuro, è molto difficile vivere nel qui ora.

Ma è possibile.

Vi sono persone che lo fanno naturalmente.

Che in modo naturale accettano la realtà e la sua precarietà.

Basta imitarle.

Il lasciarsi andare alla realtà, smetterla di rifiutarla, anzi ammirarla, goderla, è il segreto della felicità.

Certo, so che si può obiettare che nella realtà c’è l’ingiustizia e che il non ribellarsi all’ingiustizia comporta la rinuncia a voler cambiare il mondo, alla rivoluzione.

Ma qui non parliamo di rivoluzione sociale, bensì di rivoluzione individuale.

Il buddhismo non è fatto per i rivoluzionari, per i condottieri, per i conquistatori.

Il buddhismo è fatto per la gente comune.

Per la gente che soffre e che non vuole soffrire più.

Che vuole essere felice.

Vuoi essere felice?

Vuoi rivoluzionare la tua vita?

Non la società ma la tua vita.

Accetta la realtà.

E il suo continuo cambiamento.

Tratto da Intervista Col Buddha di Federico Traversa, edito da Edizioni il Punto d’Incontro