Sanpa: Luci e ombre di Vincenzo Muccioli

di Federico Traversa

Televisivamente, il maledetto 2020 si è chiuso col botto: Sanpa è una delle serie più avvincenti degli ultimi anni, uno spaccato documentaristico che non fa sconti e, partendo dall’obbiettivo di raccontare la controversa Comunità di San Patrignano, dell’altrettanto discusso fondatore Vincenzo Muccioli, finisce per tratteggiare meglio di tanti libri di storia quell’Italia del recente passato sulla quale, neanche troppo nascosta, è cresciuta quella di oggi.

Nel corso della narrazione vengono fuori le luci e le ombre di un microcosmo salvifico per alcuni e infernale per altri, in cui si intrecciavano vita, morte, dipendenze, interessi economici, violenze, antipatie, amori, e su cui governava lui: Vincenzo Muccioli. Un baffuto e corpulento re senza corona, amato e odiato, che salvava, condannava, puniva e assolveva. Un po’ santone e un po’ santino, risoluto, egocentrico all’eccesso, non sempre limpido nelle sue scelte seppur innegabilmente efficace, Muccioli per un periodo ha rappresentato al meglio quello che la cultura italiana ha ricercato sin dalla sua tormentata unione sotto il vessillo tricolore: l’uomo della provvidenza, quello forte, affascinante, quello che possiamo stare tranquilli che intanto ci pensa lui. Perché l’italiano è da sempre abitato da una terribile retorica: so come andrebbe fatto ma siccome non ne ho voglia trovo chi lo fa al posto mio, possibilmente meglio. Per questo qui da noi più che in altre democrazie, l’uomo della provvidenza ha sempre vinto facile. E mi fermo qui senza sciorinare quante volte è capitato, da Mussolini in poi, non ultimo con il nuovo premier Mario Draghi, su cui fioccano complimenti tout court ed è sparita ogni tipo di critica.

Il buon vecchio Vincenzo Muccioli, per quanto scaldasse il cuore degli amanti dell’uomo forte, era certamente più divisivo. C’era chi lo amava, all’inizio la maggior parte, ma anche chi lo detestava, criticava e se ne teneva alla larga, soprattutto dopo i processi “delle catene” e la brutta storia della spedizione punitiva finita in tragedia, con un orribile omicidio che di fatto puntellò l’ultimo chiodo sulla bara del fondatore di San Patrignano.

Ok, cappello introduttivo finito, ora mi fermo un attimo e scendo sul personale per spiegare un paio di cose, datemi solo una decina di righe. Da quando Sanpa è andata in onda, in tanti mi hanno chiesto se l’avessi vista, cosa ne pensassi, quale fosse la mia opinione su Vincenzo e sulla comunità. Il perché di tanta curiosità sull’umile opinione di un povero Dio come il sottoscritto è presto spiegata: ho collaborato per anni con Don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto, il cui metodo riabilitativo era l’esatto opposto di quello utilizzato nella struttura di Muccioli. Ecco, fermiamoci pure qui e perdonatemi se vi deludo ma voglio subito sgombrare il campo e annunciare, persino con un po’ di imbarazzo, che durante la nostra frequentazione non ho mai affrontato in maniera approfondita il discorso della riabilitazione e dei metodi terapeutici delle comunità di recupero con Don Gallo. Certo, abbiamo parlato, e tanto, di dipendenze, delle droghe e delle mafie che sulle droghe lucrano protette da uno stato eccessivamente proibizionista, ma di comunità e di metodologie di recupero molto poco. E non perché l’argomento non mi interessasse ma semplicemente perché Andrea ne aveva già parlato allo sfinimento nei suoi libri, a partire dall’imprescindibile “Il Cantico dei Drogati – L’inganno Droga nella Società delle dipendenze”, nei dibattiti pubblici e in migliaia di interviste, quindi nei tre libri che realizzammo insieme ci soffermammo maggiormente su altro.

In quel periodo conobbi comunque molti ragazzi di Sanbe, con alcuni di loro mi sento ancora oggi, e di certo respirai un’atmosfera di grande libertà e rispetto. Stando ai loro racconti, l’approccio che aveva la comunità del Gallo era del tutto differente. Andrea cercava di mantenere intatte le individualità, di farle uscire fuori in maniera libera e costruttiva, non di mutarle in qualcosa di precostituito. Senza considerare poi che, nell’esatto momento in cui l’ospite riteneva non facesse più per lui, era libero di andarsene. Una porta sempre aperta, quindi, sia in entrata che in uscita.

Una realtà ben diversa da San Patrignano, almeno stando a quello che ci ha mostrato la docuserie targata Netflix, con gente incatenata, porcilaie, umiliazioni, suicidi, presunti stupri e addirittura un omicidio. E infatti sulla memoria di Muccioli, una volta osannato padre salvatore delle innocenti vittime dell’ago, si è abbattuto un terremoto di pareri negativi, insulti e ira, una ribollita d’odio che i suoi pochi sponsor, a partire dal figlio Andrea e dal vecchio amico Red Ronnie, hanno cercato di combattere senza successo, anche perché, questo va detto, alcune situazioni sembrano davvero indifendibili.

Ma togliamoci per un attimo la maglietta dei tifosi di questa o quella squadra e proviamo a ragionare tutti insieme. Se vogliamo tentare un’analisi un minimo obbiettiva su San Patrignano e il suo fondatore dobbiamo considerare che, al netto delle legittime critiche che oggi vengono fatte a Muccioli e al sistema squadrista di Sanpa, manca un aspetto fondamentale: il contesto storico, almeno agli inizi. E non stiamo parlando di una variabile di poco conto, credetemi. Sono cresciuto con un tossicodipendente in casa e vi sto parlando dei primi anni ottanta; allora le famiglie non sapevano che cosa fare, tutti vittime dello smarrimento più totale. Lo stato se ne fregava, al Sert il metadone o l’antaxone lo davano solo a chi era pulito da almeno 10 giorni, altrimenti non ne avevi diritto, e le famiglie non sapevano come raffrontarsi col problema. Si era proprio soli. C’era chi consigliava il dialogo, chi suggeriva le mazzate. Spesso le si provava entrambe ma la realtà, o perlomeno quello che mi è parso di capire in tutti questi anni, è che finché il tossicodipendente non decide veramente e in totale autonomia di smettere, non smette. Il 90% della buona riuscita di una disintossicazione è lì, l’altro 10% è una questione di fortuna, fortuna di incontrare le persone giuste e i migliori contesti possibili quando dici basta, e probabilmente anche dopo.

Negli anni ottanta si era soli e spaventati perché i ragazzi morivano come mosche. Mio padre faceva il capostazione a Sestri Ponente, quartiere operaio stretto fra la Marconi e la Fincantieri, e ogni tre giorni i suoi colleghi trovavano un morto nei bagni con un ago piantato nel braccio. Si era terrorizzati. Si era disperati.

Poi saltò fuori uno come Muccioli – grazie anche all’aiuto dei Moratti che finanziarono la struttura fino a farla diventare gigantesca – che più o meno disse: “Li prendo io, anche i più malmessi, anche quelli senza speranza, li prendo gratis, e state tranquilli che se fan storie li chiudo dentro e non li faccio uscire” .

E allora tante mamme e tanti papà, ormai esausti, hanno mandato a Sanpa i propri figli, perché comunque il suo orribile metodo “mazzate” e “sole piatti” tanti ne salvava.

A quale prezzo chiedetelo a chi ne è venuto fuori. Ma anche qui non vi aspettate risposte a senso unico. Fabio Cantelli, che a breve uscirà con il suo libro sugli anni trascorsi a fianco di Muccioli e della serie è stato una voce importante, vi racconterà la sua visione, che è diversa a quella dell’autista Walter Delogu o del medico Boschini. Anche la conduttrice Andrea Delogu, che a Sanpa ci è addirittura nata, ne ha parlato nel suo intensissimo romanzo La Collina.

Tante voci, tanti diversi Muccioli che vengono fuori. Alcuni addirittura raggelanti. Esiste un sito – www.lamappaperduta.com – dove vecchi ospiti di San Patrignano si confrontano raccontando le loro esperienze. Leggerle è come ricevere un pugno nella bocca dello stomaco dopo aver appena finito di mangiare. Si parla di botte, catene, docce gelate, abusi sessuali, follia. Atti non compiuti direttamente da Muccioli ma di cui il fondatore di Sanpa era certamente al corrente. E poi ci sono i racconti dei presunti rapporti sessuali fra Vincenzo e alcuni dei suoi ragazzi. Claudio Ghira, ex-medico di S. Patrignano, durante la sua deposizione al processo per l’omicidio di Roberto Maranzano, alla domanda se i rapporti sessuali nella struttura fossero controllati da Muccioli, risponde: “Certo, ma nessuno controlla i suoi. Eppure quante volte lo abbiamo visto a letto con i ragazzi più giovani? Per molti di noi, però, almeno fino a quando non si riesce a passare dalla fase acritica, anche quello viene visto come un modo per stare vicino ad una persona che sta male

Parli di rapporti omosessuali forzati?

So di un ragazzo milanese che sicuramente ha visto i suoi problemi aumentare proprio per le eccessive attenzioni del babbo. Il capo amava soprattutto avere rapporti orali. Diceva che anche quelli servivano per far passare energia positiva da lui ai suoi discepoli”.

Sergio Bombardi, uno dei fedelissimi di Vincenzo, il 30 maggio del 2012 pubblica una drammatica testimonianza sulla sua pagina facebook: “Un giorno mi chiamò Vincenzo e mi affidò una ragazza di Rimini dalla quale le donne – mi pare la Diella (Rita) & C. non riuscivano a cavare nulla. Questa poveretta e poi si capirà perché poveretta fu affidata a me. Io però avevo l’impegno del gruppo per il quale era prassi il pernottamento insieme e non si poteva certo mettere a dormire una ragazza con qualche decina di ex o tossici. Mi disse (Vincenzo Muccioli, ndr) di andare con lei a vivere nella mansarda che fu alloggio di Vincenzo per un certo periodo. Non ricordo l’anno ma sicuramente prima del ’90. Durante il giorno sarebbe stata con noi chimici in laboratorio.

Lei non collaborava ed io iniziai a menare. La picchiavo con un bastone ovunque capitasse. Non la colpivo forte perché avrei potuto non solo farle male ma anche spaccarle un osso o chissà … la picchiavo con questo bastone e levavo subito il colpo.

Scusate il paragone ma si deve capire: la picchiavo come si suona la batteria: si dà il colpo e si leva immediatamente il bastone.

La colpivo anche in testa anzi furono parecchi i colpi in testa. Lei dura come il ferro neppure si lamentava.
Il giorno dopo alla sveglia trasalii. La testa e la faccia erano il doppio del normale. Chiamai il dottore ma non ricordo chi venne. Ricordo che mi guardò come si guarda un pazzo e mi disse di calmarmi. Non capitò nulla. Io credevo di aver esagerato come del resto era, aspettavo Muccioli che mi chiudesse in un tino e invece nulla. Restammo chiusi in mansarda per più di una settimana. Ricordo che il versamento dal cranio passò al collo e poi piano piano si riassorbì.

Non fini qui: la ragazza non collaborava ed allora si passò alle docce gelate. Io la mettevo nuda in doccia prendevo il getto in mano e perpetravo quest’altra violenza con la consapevolezza del mostro che sono stato parecchie volte.

A forza di vederla nuda un giorno mi feci masturbare… questo andò avanti per un mese o giù di lì.
Poi la ragazza che non aveva mai avuto problemi di droga ma era piuttosto un soggetto borderline cioè non abile come si intende, ma un po’ diversamente abile, collaborò.

Vincenzo a cena mi disse di alzarmi unitamente a questa ragazza della quale non ricordo il nome ma ricordo era di Rimini e doveva essere figlia di amici dei Muccioli, io pensai “ecco adesso mi fa nero”. Invece mi coprì di elogi e tutti mi fecero l’applauso più sincero!!!”.

Verità o vili diffamazioni?

Impossibile stabilirlo oggi.

Per cercare di saperne un po’ di più e raffrontarmi con una fonte diretta, ho chiesto lumi a un amico di lunga data che è stato tre anni a Sanpa. Lo chiameremo Y per tutelarne l’anonimato. Y aveva 23 anni ed era messo parecchio male quando, sul finire degli anni ottanta, finì a San Patrignano. Laggiù pianse, prese qualche ceffone, imparò a lavorare il legno e si ripulì. Fu dura, durissima. Oggi è un papà che ogni giorno si occupa del figlio adolescente, ha un lavoro stabile, e nel tempo libero gira in moto e ama fare lunghe passeggiate nei boschi. Se gli parli di Muccioli, a Y si illuminano gli occhi e prova per lui una grande riconoscenza. L’esperienza di San Patrignano gli ha salvato la vita.

Vedete? Le persone, esattamente come la vita, non sono mai tavolozze piene ma colori sfumati, mescolati, in perenne bilico fra la luce e l’ombra.

Allora i tossicodipendenti erano tanti, un’infinità, e le comunità avvedute troppo poche. E allora toccava turarsi il naso e andare da Muccioli, con i suoi metodi violenti, gli abusi, la maniacale disciplina e tutto quanto. Perché quegli anni sono stati una strage e le barbarie di Sanpa erano sempre meglio del vedere giovani nel fiore della vita spegnersi nei cessi delle stazioni.

Ecco, questo contesto, all’avvincente docuserie di Netflix, un poco manca; parlo dell’odore della disperazione negli occhi di tanti padri e madri che hanno perso i loro figli; parlo del rumore delle campane che rintoccavano cupe durante i funerali di ragazzi di nemmeno vent’anni; parlo dello sguardo vuoto di migliaia di anime giovani in corsa verso la morte. Un oceano di dolore che forse, e sottolineo forse, compensa gli imperdonabili errori di Vincenzo Muccioli e di San Patrignano.

O forse no. Una cara amica disintossicatasi tanti anni fa nella comunità di Don Gallo, e oggi valente scrittrice, mamma e donna impegnata nel sociale, mi fa notare che “il fatto che in quel periodo ci sia stato un Muccioli che, per le dimensioni che aveva la sua comunità, rappresentasse per tante famiglie o disperati in difficoltà l’unica spiaggia in cui sperare e a cui aggrapparsi lo comprendo ed è indiscutibile. Detto questo, se in tanti ce l’hanno fatta non significa che non ce l’avrebbero fatta senza quei metodi brutali”.

Anche questa è una chiave di lettura. Un’altra potrebbe essere da ricercare nell’eccessiva espansione di San Patrignano, che in pochi anni passò da ospitare un centinaio di ragazzi a oltre duemila persone e Muccioli fu costretto a delegare ad altri quello che non riusciva più a seguire direttamente. Gente non preparata che, inebriata dal potere, commise errori dagli effetti devastanti.

Sia quel che sia, oggi Muccioli non c’è più, ma i tossicodipendenti ci sono ancora. Temo ci saranno sempre, il passaggio alle droghe pesanti è diventato una sorta di stupida “prova di coraggio”, un rituale quasi necessario per una società che ormai da tempo ha perso ogni valore alto a cui il giovane, legittimamente, ambisce per spendere se stesso. E allora anche la droga, o meglio il passaggio attraverso il suo mondo, assume un valore rituale affascinante. Tutte le scelte più estreme dei ragazzi, dal fanatismo religioso in poi, sono figlie della necessità di cercare una maggiore profondità, quasi un disperato bisogno di quell’epica che la nostra società ha sacrificato nel nome degli agi, delle frasette motivazionali da baci perugina, del dio consumo.

La droga, almeno all’inizio, quell’apatica sicurezza priva di emozioni te la toglie. I legami, in quel mondo, si fanno più intensi, tanto nel bene quanto nel male. Ami di più i tuoi amici e odi di più i tuoi nemici. Ogni metro in strada un’avventura, una lotta per sopravvivere.

Un’ epica forte, un’epica che cattura.

Poi, quando in quel mondo ci sei davvero, le cose sono un pochino diverse: soffri come un cane, ti cola il naso, ti caghi nei pantaloni e fai cose di cui ti vergognerai tutta la vita, sempre che tu abbia la fortuna di fartela, una vita.

Ovviamente non è tutto qui. Il discorso è immenso, e abbraccia tutti gli infiniti raggi di quel complesso ingranaggio alla base dell’umana condizione. Alla droga si può arrivare perché si proviene da famiglie sbagliate, perché subentrano problemi pesanti, per una sensibilità o fragilità troppo spiccate, per una predisposizione genetica, addirittura per puro caso, ammesso che esista.

Non è un argomento facile, ci sono troppe sfumature, troppe luci e troppe ombre, proprio come dentro Sanpa e il suo strano, chiacchierato fondatore: Vincenzo Muccioli.

Forse certi problemi, così come certe figure, non vanno compresi a livello intellettuale ma scavalcano l’intelletto e pretendono un’attenzione, e poi un’accettazione, più profonda, pura, totale. Non concetti da impilare e razionalizzare, quindi, ma esperienze.

E le esperienze, belle o brutte che siano, le comprendi solo per “assorbimento”.