Pete Doherty il libertino fedele ai propri demoni

di Federico Traversa

È uscito da qualche giorno anche in Italia, “A Likely Lad”, l’autobiografia di Pete Doherty scritta insieme al giornalista inglese Simon Spence.

Devo dire che il libro mi ha sorpreso, come sa fare solo la vita. È pieno di così tante contraddizioni da risultare, alla fine, assolutamente coerente con il suo protagonista.

Il vecchio Peter è davvero uno strano personaggio: naif, maledetto, bohémien, inaffidabile, estremo, poetico, scoraggiante. Un po’ “Rimbaud dell’indie-rock” come lo ha definito la rivista Mojo, un po’ una specie di Mark Ranton in fuga verso Amsterdam alla fine di Trainspotting. Ed è davvero spiazzante realizzare che lo stesso musicista che con i suoi Libertines ha riempito e tuttora riempie i palchi di mezzo mondo, abbia collezionato quasi più arresti di Vallanzasca e si sia ritrovato implicato in beghe serie, che vanno da un suicidio/omicidio mai del tutto chiarito al furto con scasso in casa di uno dei suoi migliori amici. Un quadro che quasi fa sembrare i suoi eterni problemi con l’eroina – che poi sono la causa dei veri o presunti guai sopra – poco più di una marachella.

In mezzo a questa narrazione degna di un novello Jim Carroll, si erge la persona Peter Doherty, una figura decadente, complessa e a suo modo romantica; un uomo innamorato della fama e della poesia che ha sempre e comunque cercato di mettere la sua arte “sopra ogni cosa” .

Il suo libro, lo confesso, mi è piaciuto tanto, così come negli anni ho appezzato sia la musica dei Libertines che dei Babyshambles e del Doherty solista. La Londra dei primi anni 2000 – vorticosa e affascinante – viene fuori dalle pagine di “A Likely Lad” in tutta la sua intensità, con Peter che non fa sconti a nessuno, a partire da sé stesso. E vuota il sacco sul rapporto rovinoso con le droghe, racconta liti e botte con l’amico e compagno di band Carl Barât oppure quelle con la top delle top ed ex fidanzata super glamour Kate Moss. Ma c’è spazio anche per i racconti delle lunghe serate con l’amica di musica e pippette Amy Winehouse, le tante giornate passate in prigione, i viaggi intorno al mondo per sfuggire alla schiavitù dell’ago, i figli capitati lungo un cammino sentimentale tortuoso, fino all’apparentemente ritrovata sobrietà di un paio d’anni fa, subito prima dello scoppio della pandemia.

Non credo di esagerare nel definire il libro, con tutte le profonde contraddizione del suo autore, uno dei più vibranti e avvincenti memoir rock usciti negli ultimi anni.

Qualche settimana fa Doherty è passato dall’Alcatraz di Milano con i Libertines, in tour per festeggiare i vent’anni di “Up The Bracket”, il disco della consacrazione. Sul palco Pete è apparso parecchio imbolsito ma tutto sommato in forma soprattutto al netto di una condotta di vita non esattamente da atleta. Indossava una felpa del Venezia calcio, chi sa perché è pregato di dirmelo, ed è sembrato divertirsi un mondo. Forse il Rimbaud dell’indie Rock ha finalmente trovato la sua sintesi?

Di sicuro fino ad oggi è stato fedele ai propri demoni.

Rockin’ in a free world – L’arte di NON lasciarsi condizionare, nella musica come nella vita

(di Federico Traversa)

Ci mandano a scuola e ci riempiono la testa di regole. Regole di comportamento, di etica, di approccio alla vita. Man mano che cresciamo sembra che la nostra vita sia scandita da tante piccole tappe in attesa del gran premio finale. Peccato che non ci sia nessun premio a fine corsa, anzi. Oggi il let motiv è più o meno questo: studia almeno fino alla laurea però divertiti. E non ti istruire troppo perché conoscere tante cose serve solo per ottenere un pezzo di carta che ti faccia trovare il lavoro che ti paga di più facendo meno. Fai esperienze ma non troppo approfondite sennò rischi di distrarti. Un po’ viaggia perché vedere il mondo è importante ma poi trovati un posto il più possibile fisso. Schiaccia tutto e tutti per conquistarti una posizione di prestigio, intanto in giro c’è pieno di stronzi. Quando sei sistemato accasati e fai dei figli ma senza fretta, la posizione deve venire prima; e poco importa se i tuoi bambini avranno genitori che sembreranno giovani nonni. Continua a lavorare come un pazzo e a schiacciare tutto e tutti perché il fatto di avere una famiglia giustifica ancora di più il tuo essere una merda. Gioca a calcetto oppure vai in palestra sennò ti stressi troppo e il fisico a una certa età ha bisogno di muoversi. Siccome sport e hobby non bastano, bevi, scassati di cibo spazzatura, prendi psicofarmaci così il sintomo sparisce, però ricorda di non indagare sul motivo di quell’ansia, altrimenti rischieresti di dover pensare in autonomia e affrontare verità capaci di mettere in discussione ogni scelta che hai fatto e la società in cui vivi. Ogni volta che con la famiglia o con gli amici ti capita qualcosa di vagamente carino o interessante fotografala e mettila in rete, in modo da non sentirti diverso da tutti i tuoi contatti che sembrano non avere una preoccupazione al mondo, vivere una vita meravigliosa e vedere un sacco di cose interessanti. E poi trovati un hobby strano, tipo sputo del nocciolo di pesca, anche quello da condividere sui social. Diventa un mago di nuove tecnologie per non sentirti vecchio. Guarda con superiorità i derelitti del mondo ripetendoti ossessivamente che tu sei diverso, hai una marcia in più e a te non capiterà. Nelle giornate in cui ti senti più figo del solito scrivi alle vecchie compagne di scuola rintracciate su facebook, oggi madri separate di mezz’età, cercando di sedurle e sentirti così quel gran sciupafemmine che eri in passato. Evita quanti più tumori e infarti possibile. Non pensare mai alla pensione perché intanto non ti spetta e poi la società ha fatto in modo di farti credere che in pensione vanno solo i super vecchi e tu non lo sei né ambisci a diventarlo.

Ah, e ricorda di non farti troppe domande sulla vita e il suo senso: potresti realizzare di essere stato per settant’anni su un rullo costruito da altri, senza possibilità di muoverti, e di essere arrivato a fine corsa. E lo so, lo so… è agghiacciante.

Per questo credo dovrebbe essere insindacabile diritto di tutti scegliere in libertà il proprio percorso, seguendo sogni, ambizioni e turbamenti personali. Andandosi magari a cercare sentieri poco battuti per conquistare nuovi modi di attraversare questo strano gioco chiamato vita. Peccato che il sistema di paure e condizionamenti conosciuto col nome di società (e anche religione) non lo permetta e isoli, sputtani e tiranneggi chiunque tenti vie di diverse. Oppure faccia di peggio, inglobando e appiattendo le voci dissonanti fino a renderle parte dello status quo.

Il rock, nel suo piccolo, è stato un esempio di questo modus operandi. Nato da un giovanile desiderio di cambiamento e voglioso di rompere le catene della buona borghesia è presto divampato diventando qualcosa di grande, capace di spingere i ragazzi a mettere in dubbio l’ordine costituito e a tentare scelte diverse. Pensate alla forza delle canzoni di protesta del primo Bob Dylan, della bella Joan Baez e di tanti altri musicisti impegnati. Oppure ai mega concerti, da Woodstock all’Isola di Wight, che portarono folle oceaniche di ragazzi a ballare mezzi nudi sotto le stelle all’urlo di peace and love. Giusto o sbagliato che fosse, il rock degli inizi ambiva a un cambiamento, un nuovo modo di vedere le cose.

Il sistema l’ha capito quasi subito, ha realizzato che non poteva reprimerlo e concluso che fosse molto meglio comprarselo e controllarlo. E l’ha fatto. Ha anabolizzato il rock con drogaggi vari e denaro sonante, si è comprato gli artisti e incanalato il movimento verso il puro business e il semplice intrattenimento. E ciao ciao rivoluzione.

Ma non voglio concentrarmi su questo, sarebbe inutile, quanto sull’orgoglio di fare scelte diverse, controcorrente e nuove. Sui pionieri e le eccezioni, quelli che con coraggio hanno aperto nuovi sentieri per attraversare la montagna. E il nostro mondo di esempi così ne è pieno.

Dove sarebbe il nostro amato rock n’roll se un ragazzo nero un po’ incazzoso di nome Chuck Barry non avesse deciso di mescolare il blues del Mississippi con una specie di country velocizzato? Per poi portare sul palco questo nuovo suono con performance adrenaliniche per l’epoca, fra assoli di chitarra elettrici e duck walk indiavolate?

Quante possibilità di affermarsi aveva un certo Elvis Presley quando decise di suonare la propria musica ancheggiando come un nero in un mondo dominato dai bianchi? E invece prima fece scalpore, poi si urlò allo scandalo e infine arrivò il successo. E niente nella musica fu più come prima.

Quale percentuale di successo avreste dato a un gruppo giamaicano che suonava musica in levare – e inneggiava a un re africano ritenendolo Gesù Cristo nella sua seconda venuta – di sfondare fra il pubblico rock dei bianchi della seconda metà degli anni settanta? Eppure Chris Blackwell, capoccia della Island, decise che quel Bob Marley con i suoi Wailers meritasse una possibilità. E a chi gli diceva che la musica caraibica era un suono da compilation e che nessuno avrebbe preso sul serio i Wailers, lui scrollava le spalle e rispondeva: “Li promuoveremo in modo nuovo, percorrendo strade che nessuno ha mai percorso”. Ed ebbe dannatamente ragione lui.

Negli anni novanta i rapper bianchi, dopo il flop di Vanilla Ice, non venivano presi sul serio da nessuno e se provavi a fare hip hop il minimo che potevi aspettarti era una bottigliata in testa. Quante possibilità aveva di farcela, essere accettato veramente dalla scena e ottenere un contratto discografico un ragazzino smunto dagli occhi azzurri, già padre di una bimba e che viveva in una scalcinata roulotte nei sobborghi di Detroit? Nessuna, vero? E invece Marshall Matters in arte Eminem ha fatto di più, non solo ottenendo un contratto milionario e il rispetto della scena ma diventando pure uno dei rapper più famosi e venduti di tutti i tempi, con uno stile suo e un modo di promuoversi completamente nuovo, lontano anni luce dai sentieri battuti in precedenza.

E avreste scommesso un penny che una ragazza ebrea dell’east side di Londra, piena di tatuaggi, con i capelli pettinati da black diva anni sessanta e un attrazione irresistibile verso gli eccessi, sarebbe diventata la nuova regina del soul-jazz? Eppure Amy Winehouse nella sua breve vita lo fece, percorrendo la propria scalata al successo in modo totalmente personale.

Potrei citare centinaia di esempi per spiegare un solo e semplice concetto: non dobbiamo prendere per buono quello che fanno gli altri ma cercare prima di capire se va bene per noi, e se non lo sentiamo aderire alla nostra pelle non dobbiamo avere paura di osare e tentare qualcosa di diverso, che pochi o nessuno ha sperimentato prima. E questo vale in tutti i campi. È così che il genere umano compie i suoi balzi evolutivi, grazie a i pionieri, a quelli che le cose provano a farle a modo loro.

Pensiamo diversamente, non anchilosiamo la nostra mente. Recenti studi neurologici affermano che la fisiologia del cervello cambia, migliora e si rinnova quando ci mettiamo a fare o a pensare di fare cose completamente nuove. Nascono nuove sinapsi, collegamenti e la nostra creatività si impenna.

Guai ad accettare quello che ci viene raccontato senza prima capirlo.

L’unica cosa che dobbiamo alla vita è viverla nel modo più aderente possibile a quello che siamo. E per tutto il resto… pump up the volume!